Mario Draghi
4 minuti per la letturaVa bene, è solo un’ora ma non è quella dell’addio. Lo scontro sul coprifuoco da spostare dalle 22 alle 23 non è un fuoco di paglia perché dentro ci sono tante cose: dalla competizione Salvini-Meloni a quella (più grave) tra Stato e regioni; dalle necessità identitarie di Pd e M5S alla campagna elettorale amministrativa che vedrà aprirsi le urne a settembre, ossia dopo che si sarà capito se la ripresa estiva è stata veritiera o invece una falsa partenza come nelle gare di atletica.
Va bene, ci sta tutto. È un governo d’emergenza che poggia su una maggioranza composita e per nulla amalgamata. Ogni partito guarda al suo interesse anche se a volte sembra che fatichi a individuare quale sia e che per voglia di strafare dribbla se stesso. Però adesso lo schema cambia, il gioco si fa duro e quando è così i duri cominciano a giocare, giusto?
Insomma oggi Mario Draghi porta in Consiglio dei ministri il Pnrr e comincia una partita diversa, una partita fondamentale. È per il Recovery, per gestire l’enorme massa di finanziamenti che stanno per piombare sul Paese come uno tsunami. È per gestire l’onda gigantesca di risorse simile ad una diga che cede e riversa la massa d’acqua dovunque può. È per questo che SuperMario sta a palazzo Chigi.
Per l’Italia si tratta di una occasione irripetibile e non possono essere le beghe tra partiti, lo scontro a beneficio mediatico su questo o quel ministro ad alzare un polverone che colpevolmente finisce per nascondere la meta.
Questo per dire che sul Recovery Plan non sono ammesse distrazioni. Se il maremoto sulle riaperture finisce per sommergere l’appuntamento più importante per l’Italia dal piano Marshall in poi, allora davvero vorrebbe dire che non c’è speranza (e il ministro non c’entra). Non è così, non può essere così. Lo sa il capo del governo, lo sanno le forze politiche che hanno accettato di sostenerlo in un percorso tortuoso ma obbligato. Lo sa benissimo Matteo Salvini che ha detto che nel governo vuole starci perché preferisce decidere dove allocare i fondi piuttosto che vederlo fare a qualcun altro. Lo sanno Letta e Conte. Lo sanno Renzi e Berlusconi.
Dunque inutile, oltre che impossibile far finta di niente. È sui capitoli del piano di resilienza, è sulla necessità che i fondi arrivino a destinazione, è sul salto di qualità che l’Italia deve fare per mettersi al passo con i partner europei che si gioca il futuro del Paese. È sulla credibilità di fare le riforme necessarie: giustizia e pubblica amministrazione in primis. È su tutto questo e oltre che si parrà la nobilitate di una classe politica che non può permettersi di baloccarsi con le pastette e il titic-titoc di corto respiro.
Ci sono oltre 221 miliardi da spalmare su sei missioni e sedici componenti: dalla digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura alla rivoluzione verde e transizione ecologica; dalle infrastrutture per la mobilità sostenibile all’istruzione e ricerca; dall’inclusione e coesione agli interventi per modernizzare il sistema sanitario.
Draghi, c’è da crederlo, su questo ha le idee molto chiare e ha individuato i percorsi da seguire con i partner europei. Oggi presenterà le linee guida del Piano e dunque un documento per molti versi ancora aperto. Poi ci sarà lunedì e martedì prossimi la presentazione e il dibattito in Parlamento per recepire indicazioni e suggerimenti, e poi infine la stesura finale da spedire a Bruxelles. Sono passaggi delicati: se qualcosa non dovesse filare liscio il governo rischierebbe e l’intelaiatura sulla quale si è costruita la larga maggioranza minaccerebbe di cedere. È evidente che nessuno può permettersi un esito simile. Ma proprio per questo le fibrillazioni delle ultime ore non possono essere anticipatrici di divaricazioni che se riprodotte e manifestate nel Consiglio dei ministri potrebbero determinare lacerazioni non giustificate e non giustificabili.
Il Recovery è un’opportunità che va a favore dei cittadini e sprecarla per interessi di parte sarebbe una sciagura. La leadership di Draghi assicura autorevolezza e competenza. Ma il presidente del Consiglio non può essere lasciato solo. Deve avvertire attorno a sé la solidarietà e il sostegno convinto di partiti e movimenti che si vogliono caricare sulle spalle la responsabilità di disegnare l’Italia che verrà. Senza naturalmente che questo significhi abdicare alle priorità di ciascuno. Ma la priorità delle priorità è che le risorse arrivino a destinazione senza intoppi. Il Recovery, se ben concepito e poi gestito, è la freccia che centra il bersaglio della crescita. Senza di quella, il resto è battibecco inconcludente.
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