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Daniele Franco, ministro dell'Economia, e il premier Mario Draghi

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A poco più di due settimane alla presentazione a Bruxelles del Recovery plan iniziano a delinearsi i dettagli sulla governance del piano che, mettendo insieme diversi programmi, è arrivato a 222 miliardi. La costruzione della cabina di regia, ovviamente, suscita gli appetiti dei partiti. Quello che emerge, dalle prime indicazioni, è un sistema di gestione dove la regia politica andrà a un comitato di ministri riunito attorno a Mario Draghi.

Il pieno mandato per l’attuazione del piano sarà attribuito al ministero del Tesoro. Una strada simile a quella adottata in Francia. E che si differenzia da quella dell’ex premier Conte. Questa architettura è al centro delle consultazioni che il premier sta conducendo con i diversi partiti (ieri è toccato a Fratelli d’Italia).

I MALUMORI POLITICI

Ovviamente, non mancano i malumori. A cominciare da una presunta mancanza di collegialità da parte del Mef, accusato di non condividere i dossier più importanti. Tutti i ministri che compongono la maggioranza vogliono avere voce in capitolo. Ma questo non sarà possibile, proprio per evitare lungaggini burocratiche e disfunzionalità nella macchina organizzativa.

Da qui la soluzione escogitata da Mario Draghi. Da una parte indicare una scaletta definita di funzioni e scadenze (l’obiettivo è quello di contenere le procedure burocratiche entro scadenze non derogabili). Dall’altro lato coinvolgere i ministri “a rotazione”, a seconda dei temi da trattare.

Insomma, uno schema “a geometria variabile”, dove il presidente del Consiglio chiamerà di volta in volta i ministri competenti per materia: Pubblica amministrazione, Mezzogiorno, Infrastrutture, Sviluppo economico e così via.

Questa ipotesi, però, non sembra entusiasmare le forze politiche, tanto che si starebbe pensando di rinviare a maggio, cioè dopo la chiusura del Recovery Plan, la soluzione del problema. Magari con un decreto ad hoc. Non più di otto-nove articoli con l’indicazione delle procedure e le eventuali sanzioni per i ritardi. Nella speranza che nel frattempo tra la presidenza del Consiglio e le forze politiche sia stata trovata la quadra. Il terrore che attraversa le forze politiche è di restare tagliate fuori dalla stanza dei bottoni (e dalle decisioni che contano).

IL “COMITATO” DI DRAGHI

Se è vero che Conte avrebbe voluto attorno a sé solo due ministri (Gualtieri e l’allora ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli), il comitato dei ministri di Draghi sarà invece più largo. Dovrebbe essere composto da sei persone, quelle maggiormente coinvolte nelle “missioni” del piano: Daniele Franco (Tesoro), Roberto Cingolani (Transizione ecologica), Vittorio Colao (Digitalizzazione), Enrico Giovannini (Infrastrutture), Maria Cristina Messa (Ricerca), Roberto Speranza (Sanità).

Per Draghi, dunque, quello che conta è aver affidato al Tesoro il ruolo di interlocutore unico con la Commissione europea e gli uffici che ogni sei mesi chiederanno conto dello stato di avanzamento della spesa.

 Draghi e il ministro dell’economia Franco hanno pensato a una struttura di coordinamento che sarà gestita direttamente dalla Ragioneria generale dello Stato. La stessa Ragioneria si farà promotrice di task force con le quali darà assistenza tecnica ai Comuni e alle Regioni nella realizzazione dei lavori.

Per quanto riguarda il contenuto del Recovery plan, in un intervento alla Camera di un paio di settimane fa il ministro Franco ha fatto capire che ci sarà una scrematura.

LA SCREMATURA

«Ma i progetti che non saranno inclusi nel piano non saranno necessariamente accantonati – aveva detto – Non solo esistono gli altri strumenti nazionali ed europei, ma stiamo anche valutando se istituire una linea di finanziamento ad hoc, complementare al Pnrr, che includa i progetti che, pur meritevoli per spirito e finalità, ne siano esclusi perché non soddisfano alcuni criteri più stringenti». A questo punto non resta che aspettare il 26 e il 27 aprile, quando Draghi spiegherà nel dettaglio al Parlamento le settecento pagine che valgono non solo il più importante progetto di investimenti pubblici dai tempi del piano Marshall, ma anche la sua credibilità come primo ministro.


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