Enrico Letta in visita ieri al circolo Pd del Testaccio a Roma
4 minuti per la letturaMentre nel Paese crescono in parallelo la preoccupazione per un’epidemia che non si riesce a mettere sotto controllo e le difficoltà psicologiche ad accettare il sistema di restrizioni in cui tocca di vivere, la politica continua ad affrontare il cambiamento di orizzonte con sentimenti contrastanti. Si oscilla fra l’irrefrenabile impulso del “mandarla a dire” (Salvini e Meloni) e la ricerca di ricostruire un modo di essere dei partiti che si adatti ai tempi nuovi.
Per le ragioni che tutti conoscono ora i riflettori sono puntati sull’ascesa di Letta alla segreteria del PD, cosa che avverrà, sembra sicuro, con una sostanziale unanimità fra le varie correnti. Eppure proprio questa vicenda mette a nudo la crisi della forma partito. Nei suoi discorsi Letta mescola l’invito a realizzare nei “circoli” (da tempo si definiscono così quelle che un tempo erano le “sezioni”) il dibattito sull’identità del partito con l’appello ad aprirsi ad un grande confronto con una pluralità di forze e soggetti che stanno anche fuori delle sue sedi. Ciò per evitare, meritoriamente, di continuare a lasciare tutto puramente nelle mani della “macchina” politico-parlamentare dei suoi professionisti, che è peraltro quella che ha partorito il richiamo in patria dell’esule a Parigi.
Ora chi abbia anche una vaga idea di cosa sono oggi i “circoli” del PD si chiede quanto possano essere una sede appropriata per trovare quel guizzo di creatività politica che serve al partito. Innanzitutto la loro situazione è molto diversa a seconda delle aree geografiche. Dove sopravvive almeno in parte la vecchia tradizione di militanza del PCI c’è ancora vita, sia pure da parte di una popolazione per lo più anziana e piuttosto legata alla cultura più o meno del berlinguerismo, innervata da un po’ di richiami a qualche ideologismo alla moda. A queste componenti si affiancano i professionisti della politica o aspiranti tali, che sono tutti presi dal gioco delle correnti, perché, come nei partiti della prima repubblica, se non sei attribuibile ad una appartenenza correntizia non conti nulla e non puoi aspettarti nulla. Dove la tradizione della militanza comunista non esiste o esiste poco, i circoli sono abitati quasi solo dai professionisti.
Difficile che Letta possa aspettarsi di riaccendere lì il fuoco della partecipazione ad una riflessione sulla nuova “forma” che il PD dovrebbe assumere per e ssere protagonista nei tempi nuovi. Si potrebbe obiettare che possa attendersi di più da un dibattito che coinvolga quei fermenti della società civile che ormai non considerano più interessante “tesserarsi” in un partito. È quanto fanno intendere certe parole del candidato segretario, ma anche qui la situazione non è limpida.
Mancano infatti i “luoghi” in cui far confluire questi fermenti sociali e soprattutto in cui selezionarli, per evitare che siano solo occasioni per eccitare dei protagonismi mediatici opportunamente stimolati e coltivati dalla politica spettacolo. E’ una storia vecchia: va dal popolo dei fax, ai vari autoconvocati, agli “occupy PD”, alle Sardine, tanto per buttare lì qualche ricordo. Momenti folkloristici che non hanno lasciato tracce durevoli o eredità utili per far evolvere una situazione. Anche in questi casi ci sono a fianco i professionisti, non della carriera politica, ma di quella dei “Maitre à penser”, degli “opinion leader”. Molto osannati in alcuni casi, frustrati in altri perché non lo sono, costituiscono un “popolo” a cui la politica ama fare riferimento soprattutto se può in qualche modo usarli come strumenti di legittimazione delle proprie pretese di egemonia (generando in non pochi di essi quella che ci permettiamo di chiamare la sindrome della mosca cocchiera).
Letta, come peraltro altri leader del momento, avrà il problema di riuscire a coinvolgere tanto quel che resta del mondo della “militanza” quanto quel che è disponibile nel mondo dei costruttori di opinione senza diventare ostaggio né degli uni, né degli altri, non fosse altro perché deve sapere che sono tutti pozzi da sanificare prima di abbeverarcisi, perché sono stati già compromessi dall’intrusione di quel professionismo correntizio (ma meglio sarebbe dire di fazione) che è largamente presente nella politica odierna.
Il PD nella svolta lettiana non è che l’apri pista di un qualcosa che coinvolge tutti i grandi partiti (quelli piccoli sono solo organizzazioni di professionismo politico, senza dare a questa qualifica un senso necessariamente negativo). La stessa trasformazione a cui sono sottoposti i Cinque Stelle rientra in questo contesto, anche se nel loro caso la militanza è un fenomeno piuttosto diverso e molto più evanescente (e senza tradizione) rispetto a quello dei partiti storici. Non è un caso che la trasformazione e il disegno della nuova identità siano stati appaltati ad un tecnico (?) esterno come Conte, nella consapevolezza che non era il caso di correre il rischio di coinvolgere una qualsiasi “base” o quel mondo intellettuale di riferimento che non vede l’ora di fargli da pedagogo.
Il discorso, con tutti gli aggiustamenti e i mutamenti necessari, si può estendere alla Lega e a Forza Italia, che al momento sono preservati da un impatto rude col problema dalla loro natura di partiti a base leaderistica. Ma non durerà ancora molto e ci dovranno fare i conti anche loro.
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