Matteo Salvini e Viktor Orban
4 minuti per la letturaL’uscita di Orban dal PPE potrebbe essere un atto di chiarezza: conservatori moderati va bene, sovranisti e teorici della democrazia illiberale no. La faccenda è complessa, perché al momento sembra più una iniziativa del leader ungherese che una vera decisione di un gruppo piuttosto articolato al suo interno come è il partito guidato dai tedeschi. Si pensi che le regole che hanno spinto Orban ad uscire sono state patrocinate da un esponente dei parlamentari austriaci, non proprio l’avanguardia del progressismo sia pure in salsa conservatrice.
L’evento ha subito avuto una reazione da parte di Salvini che continua a parlare su tutto pur di tenere la scena. Ha dato approvazione al passo del primo ministro ungherese, un po’ per vicinanza ideologica, forse più nella speranza che i suoi europarlamentari confluissero nel gruppo di cui la Lega fa parte, piuttosto che in quello presieduto dalla Meloni verso cui si dice si indirizzino quelli di Fedesz, il partito di cui è leader Orban.
Nell’europarlamento esponenti italiani del PSE, ma non solo, hanno approfittato dell’episodio per sottolineare che questo significava che la Lega doveva scordarsi di essere accolta nel PPE. Ovviamente si sono ben guardati dall’esprimere perplessità sull’adesione di M5S al PSE, considerando le caratteristiche piuttosto anomale che quel partito presenta dal punto di vista della democrazia interna. Ma si sa che son tutte posizioni cucinate in salsa di politica interna italiana.
Tuttavia il presenzialismo spinto che continua ad animare Salvini costituisce un problema non piccolo nel quadro dell’attuale ristrutturazione della geografia politica del nostro paese. In astratto ci sarebbero condizioni favorevoli perché la Lega capitalizzasse il cambiamento che si è verificato. Le difficoltà del PD e le trasformazioni per ora confuse dei Cinque Stelle lascerebbero spazio all’affermazione di una versione moderata del leghismo, soprattutto appoggiato su qualche buona performance di suoi governatori e anche sul ridimensionamento di quelli più discutibili e discussi tipo il lombardo Fontana.
IL MAGGIORITARIO
Se è vero che Salvini sta ottenendo che si vari una riforma elettorale di tipo maggioritario, per quanto un po’ particolare (premio di maggioranza alla coalizione vincente, piuttosto che selezioni sul principio maggioritario in collegi uninominali), non si capisce quanto possa convenirgli continuare a vestire i panni del demagogo. In un certo senso quel modello che si dice essere in gestazione (ma vedremo come va a finire) verrà testato presto nelle elezioni dei sindaci slittate, lo si dà per sicuro, all’autunno: qui ci dovrebbe essere più spazio per una Lega di tipo moderato e “governista” che per la riproposizione delle sparate populiste già uscite non bene dalle prove dello scorso anno. Si capisce che Salvini teme la concorrenza di FdI.
Lo spostamento delle sue posizioni su un asse più centrista gli farebbe perdere quei voti “di protesta” che avevano ingrossato le sue fila senza che avesse la certezza di poterli bilanciare con sfondamenti al centro.
In fondo è la fissità del quadro politico italiano che da decenni blocca il nostro sistema: ci sono due grandi bacini, uno di centrosinistra e un altro di centrodestra che pressappoco si equivalgono e che vedono quasi solo spostamenti all’interno di ciascuno di essi, abbastanza marginalmente, e non troppo di frequente spostamenti decisi dall’uno all’altro.
Certo quando si ha a che fare con due metà, basta un piccolo spostamento da una parte all’altra perché quella che ne è vittima perda il suo status paritetico, ma in questi tempi “liquidi” gli spostamenti possono avvenire anche in direzioni diverse, vuoi verso l’astensionismo, vuoi verso la dispersione in partitelli marginali ma che così diventeranno decisivi. In fondo è il perpetuarsi di quel sistema che, per tutt’altre ragioni, venne definito come “bipartitismo imperfetto”.
Piuttosto è curioso che con un leader come Salvini che proprio non riesce a fare a meno della demagogia più banale (vedi da ultimo il sostegno agli agenti penitenziari condannati per reati di violenza ad un detenuto), il suo partito venga accreditato da qualche osservatore come il vero beneficato dal governo Draghi. Si tratta in verità di osservatori che sono sia nostalgici del vecchio mondo del Conte 2 sia interessati a gettare fango su Renzi, ma si tirano dietro un po’ di opinionisti che credono di essere “di sinistra” aderendo a queste superficialità.
TREGUA PER SUPERMARIO
Resta il fatto che la Lega deve anch’essa ridefinirsi, come sono chiamati a fare tutti i partiti dopo che è stato varato l’esperimento Draghi. La possibilità di continuare come se nulla fosse cambiato, a parte l’aver accettato una piccola e precaria tregua per un breve periodo, è un’illusione.
La questione fondamentale è che la pandemia come esperienza in sé e come conseguenza che ci lascerà per un lungo periodo ha chiuso l’età dell’evasione nell’oppio delle demagogie varie (e ne hanno avute tutti, perché questo sono i cedimenti ai mantra dell’epoca trasformati in idoli dalla loro mediatizzazione).
Si apre giocoforza l’età della transizione per ricostruire. La si può affrontare da destra o da sinistra, per rifarci all’eterno archetipo delle contrapposizioni basiche della politica, ma va affrontata seriamente senza slogan e farsi fatte. Indugiare nella confortevole bambagia delle vecchie ritualità celebrate dai loro tradizionali guru non serve a nulla.
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