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QUELLI che hanno voluto la bicicletta adesso devono iniziare a pedalare. La frase, che non vuole essere irrispettosa, non è diretta a Draghi, che quell’incarico non l’ha certo cercato, e neppure ai membri del governo, ma ai partiti, che sono stati i veri pretendenti, loro malgrado, di questa soluzione della crisi della politica che essi stessi avevano innescato.
Il nuovo esecutivo dovrà misurarsi con questo contesto, che non è affatto cambiato. La adesione dei partiti alla via d’uscita che proponeva Mattarella è stata più una resa all’inevitabile che una conversione ad una diversa prospettiva: non c’è da stare sicuri che si sia svoltato una volta per tutte.
Conforta il vedere che Draghi e il Quirinale hanno ben presente questa realtà, come dimostra l’accuratissima confezione del nuovo ministero, che è una tessitura composta in modo da evitare per quel che è possibile risentimenti e manovre di rivalsa senza però cedere alla ricerca di neutralizzare i conflitti con la feudalizzazione delle aree di influenza. Anche in questo caso è istruttivo vedere come il nuovo premier ha gestito la vicenda del rapporto con la componente più caotica, coi Cinque Stelle. Innanzitutto ha riconosciuto la aritmetica della presenza parlamentare concedendo loro il più alto numero di ministri per componente (quattro). Poi però ha dosato questa presenza con un ministero d’immagine (gli Esteri) che compiaceva gli appetiti del loro più influente membro, combinato con un ministero importante, ma di relativo interesse per l’insediamento di M5S come l’agricoltura, e due ministeri di scarso peso come i rapporti col parlamento e i giovani. Infine ha apparentemente accolto la domanda grillina del super ministero alla transizione ecologica, ma facendone il perno per la gestione dei fondi del Next Generation UE e affidandolo ad un uomo immagine che può essere rivendicato tanto da Grillo quanto da Renzi, ma semplicemente perché di suo è in quel settore un grande protagonista che gli uni e gli altri hanno provato a cooptare in qualche iniziativa passata senza che ciò significhi alcuna sua adesione alle loro schiere. E invece Cingolani è, a tutti gli effetti, uno dei pivot dell’operazione Draghi.
Questo modo di procedere è stato seguito dal premier più o meno per quanto riguarda tutto il complesso del suo rapporto coi partiti. La strategia che ci sembra di leggere è come includerli nel suo disegno evitando però che siano in grado di condizionarlo: se ciascuno apporterà arricchimenti ben vengano, se qualcuno proverà a imporre le sue bandierine sarà neutralizzato dall’interesse coincidente degli altri (e del paese) a non mandare a catafascio un’operazione di rinascita nazionale.
Come sempre le geometrie politiche funzionano fino ad un certo punto. Se per caso anziché lo scarto di una componente, si arrivasse ad una inquietudine di più ampia portata, contenere gli sfaldamenti sarà più difficile e magari anche impossibile. Per questo la situazione interna alle diverse forze politiche va monitorata con molta attenzione, perché nessuna è veramente “pacificata”.
Prese singolarmente le fibrillazioni di ogni partito non possono mettere in crisi un piano che è pensato in maniera solida. Se ci sono sbandamenti nei Cinque Stelle, andranno poco lontano. Se la visione tattica di Zingaretti e dei suoi consiglieri nonché gli attuali equilibri del PD entrano in tensione, si potrà tenere sotto controllo la situazione. Lo stesso si dica per le inquietudini che corrono sotto traccia nella Lega fra il realismo degli interessi di territorio e la demagogia del partito di agitazione, o in FI dove non si sa se la svolta neomoderata sia premessa o meno per un ridimensionamento dei vertici post berlusconiani.
Si può forse dire che per i partitelli minori lo spazio di reazione è insignificante date le dimensioni della attuale maggioranza, ma va sempre ricordato che rimane anche a loro disposizione la possibilità di fungere da scintilla che darà fuoco alle polveri che stanno nei depositi dei partiti maggiori.
Con questo non vogliamo affermare che il governo Draghi sia meno solido di quel che appare, perché la sua forza è nella drammaticità della situazione che è chiamato ad affrontare, il che implica che se gli si impedirà di portare avanti il suo programma di rinascita nazionale si precipiterà nelle elezioni, cioè in una prova da cui i partiti uscirebbero travolti dal risentimento dei cittadini che si vedono bruciare un’opportunità di rinascita per giochetti di fazione inaccettabili. Tuttavia non è detto che sia sufficiente la presenza di queste condizioni eccezionali per garantire che siano sempre neutralizzate forze politiche incapaci di ragionare oltre gli orizzonti delle proprie partigianerie. E’ una banale lezione storica che sarebbe bene non dimenticare. Draghi e la sua squadra dovranno insomma lavorare con impegno per imporre e legittimare profondamente a livello di pubblica opinione il loro obiettivo di rinascita nazionale e non devono illudersi di non avere avversari e anche proprio nemici.
Il cambiamento di quadro che si avvia con il loro esperimento diventerà sempre più percepibile e questo provocherà la reazione di tutti coloro che hanno da perderci, molto o poco che sia a seconda dei casi. Questo il premier lo sa benissimo perché l’ha già sperimentato in molte delle sue esperienze, ma non siamo certi che la cosa sia altrettanto chiara a tutti i suoi compagni di viaggio nel governo, nel parlamento e nel paese.
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