La delegazione del Pd guidata da Nicola Zingaretti
5 minuti per la letturaDopo che molti si erano lanciati a discutere sulla maggioranza-ammucchiata che vedeva insieme quasi tutti, sia pure con sofisticati equilibrismi da parte di più d’uno, martedì notte è arrivato il colpo di teatro di Beppe Grillo, che del resto è e rimane un attore, niente a che vedere con un leader politico: calma a decidere su Rousseau se M5S darà la fiducia a Draghi, prima bisogna sentire cosa dirà “in pubblico”. La frase è più che equivoca e per di più viene dopo vari sproloqui in cui spiega che non ha incontrato un banchiere, ma uno che può benissimo essere un grillino perché condivide le sue idee.
Già qui ci sarebbe da notare una prima cosa curiosa di queste consultazioni o confronti. I problemi sul tappeto sono in gran parte quelli oggettivi posti dal contesto in cui viviamo e non da oggi: ambiente, salute, equità, buon funzionamento della pubblica amministrazione (giustizia inclusa), tutela delle fasce deboli, educazione, ecc. Non c’è da meravigliarsi che un uomo concreto come Draghi ne sia consapevole.
Ci sarebbe da stupirsi e molto del contrario. Del resto non è che si possa affermare che i governi precedenti ne abbiano negato l’esistenza: semmai sono stati incapaci di affrontarli con realismo concludendo qualcosa di positivo. Dunque questa rincorsa in cui si cimentano tutti a sostenere che “Draghi ci ha dato ragione” è semplicemente ridicola.
Lasciando perdere il folklore, c’è da cercare di valutare il significato delle giravolte grilline. C’è un aspetto banale in questo ed è la convinzione o illusione che i Cinque Stelle in forza del loro indubbio peso parlamentare abbiano in mano una possibilità di ricatto verso la soluzione che Mattarella ha cercato di costruire. Ciò spiega perché l’Elevato, in vista del portare a casa un rilancio del suo ruolo, trovi utile accentuare il peso dei turbamenti e delle opposizioni che corrono fra le schiere del suo movimento. Gli farebbe molto comodo in vista della prossima tornata di amministrative da cui rischia di uscire ancora una volta pesantemente ridimensionato (già non sono competizioni in cui M5S va bene di norma).
In un sistema dotato di una minima razionalità, questa mossa sarebbe facilmente stoppata, perché Draghi ha una maggioranza parlamentare anche senza i Cinque Stelle. Si dice: ma poi nelle votazioni in parlamento si potrà fare a meno di quella forza? A noi sembra francamente di sì, per la semplice ragione che FdI ha già detto che sui singoli provvedimenti se li giudicherà utili al Paese non si metterà di traverso: basta e avanza per disarmare le fibrillazioni pentastellate, considerato che almeno per una lunga fase si faranno più che altro norme aventi ad oggetto delle emergenze su cui anche nella fase del Conte 2 alla fine si sono trovate larghe intese.
Il problema è che i vertici del PD fanno fatica a contrapporsi a quelli che considerano alleati imprescindibili nella prossima competizione delle amministrative e anche dopo, soprattutto nel momento in cui con una collaborazione governativa che include anche Lega e FI avrà qualche difficoltà a ripetere lo scontro bipolare fra buoni e cattivi che tutto sommato gli ha giovato non poco nelle ultime occasioni simili. Si tenga conto che le comunali con l’elezione diretta dei sindaci sono bipolari per natura loro e se si rinuncia allo schema angeli vs. demoni bisogna trovarne un altro basato sulla credibilità dei candidati, cosa non facile di questi tempi in cui c’è carenza di leader veri.
Insomma il problema ruota ancora intorno alla natura ambigua e in dissolvenza dei Cinque Stelle, cioè esattamente il punto che Matteo Renzi aveva individuato come ventre molle del quadro politico attuale. Lo sa anche Grillo, che infatti sospende l’interrogazione della base (in realtà dei fan club, perché nelle votazioni degli ultimi anni si sono espressi fra un minimo di 27 mila e un massimo di 73mila persone per un movimento che alle elezioni del 2018 ha raccolto circa 10 milioni di voti): per evitare che dominino solo i pasdaran deve poter mostrare loro non tanto un programma, quanto un bottino (cioè un po’ di posti al governo per i capi del movimento). Dunque probabilmente si aspetta di avere, o formalmente o informalmente, qualche garanzia sulla distribuzione dei posti.
Però la domanda che sorge a questo punto è se da un punto di vista di serietà istituzionale sia accettabile questo modo di procedere che non solo manca di rispetto verso il Presidente della Repubblica (ma è un terreno su cui il grillismo è poco attrezzato), ma indebolisce il rilievo della figura di Draghi, cioè di una risorsa di cui abbiamo molto bisogno a livello internazionale.
Da abile negoziatore il presidente incaricato cerca di evitare l’esasperazione dei contrasti e giustamente tiene la sua figura fuori e sopra queste meschinità della demagogia politica. Per un poco potrà farlo, ma non a lungo, perché anche qui deve proclamare il “whatever it takes” e deve ripetere che si deve credergli perché se lo dice lo farà. Il tempo in queste congiunture non è una variabile accessoria: c’è da mettersi al lavoro presto, sia sul fronte del contrasto all’epidemia che su quello della preparazione del Recovery Plan, per non dire di quello del governo dell’emergenza socio-economica. Le rappresentanze delle varie articolazioni del sistema paese con cui si è intrattenuto ieri glielo hanno ricordato e hanno manifestato fiducia nelle sue capacità di rispondere a queste sfide.
Se non riescono a capire questo, i vertici pentastellati, Grillo incluso, si ricordino che sono a questo punto per la loro illuminata decisione di non deflettere sulla insostituibilità di Conte e Bonafede. Sbagliare è umano, perseverare è diabolico.
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