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Al mattino lascia la sua Firenze e si dirige in auto verso la Capitale.
All’ora di pranzo è atteso agli studi Mediaset del Palatino per un’intervista al Tg5, e poi in serata a Quarta repubblica, il programma condotto da Nicola Porro. Matteo Renzi è il protagonista del momento. Tutti lo cercano e tutti cercano di provare a decifrare la sua strategia. Perfino Dario Franceschini avrebbe confessato a un collega del Nazareno: «Non riesco a capirlo nemmeno io». Ed è tutto dire.
Risata generale dalle parti di via Sant’Andrea delle Fratte. Così l’ex rottamatore, dopo una corsetta all’alba e dopo aver salutato i figli, è pronto per l’ultimo miglio: rompere definitivamente e accasarsi all’opposizione – «tanto nessuno vuole andare al voto e mi riprendo nei sondaggi» – o provare a trattare con gli alleati di governo e con gli ex compagni del PD? In cuor suo il senatore di Rignano avrebbe già deciso: non sopporta il temporeggiatore Conte, non sopporta i democrat «che in privato affermano una cosa e in pubblico fanno l’opposto», insomma se dovesse seguire l’istinto avrebbe già fatto dimettere le due ministre, Teresa Bellanova ed Elena Bonetti. E arrivederci e grazie. Invece si ritrova sull’autostrada Firenze-Roma a caricare i suoi con un messaggio vocale nella chat interna di whatsapp del tipo: «Ragazzi, finalmente si sta iniziando a capire che le nostre questioni sono serie e non strumentali.
La minaccia di un voto coi responsabili in parlamento o di un’elezione anticipata si è dimostrata quella che era: una ipotesi inesistente. Adesso giochiamo la partita a viso aperto nell’interesse dell’Italia e dei nostri figli». Ed è in quegli istanti che le trattative proseguono. Al ministero dell’Economia Roberto Gualtieri ed Enzo Amendola limano la bozza finale del Recovery Plan, andando incontro alle istanze poste dall’ex rottamatore.
Ed è sempre in quegli istanti che Franceschini, capo delegazione del PD, tessitore e regista del Conte-2, smussa, media, prova in estrema sintesi a trovare una soluzione di compromesso che possa tenere insieme la maggioranza attuale. Si ragiona su due fronti: o un rimpasto per rafforzare l’esecutivo, o addirittura un Conte-ter, che è cosa diversa del primo scenario perché prevederebbe le dimissioni dell’avvocato del popolo.
Nicola Zingaretti è in posizione di attesa. Aspetta che se la vedano «Giuseppi» e «Matteo». Al Nazareno si fanno ragionamenti del genere: «Noi siamo contro la crisi. Tuttavia se si pensa di rafforzare la maggioranza si può ipotizzare o un mini ritocco o un Conte-ter. Questa maggioranza non si cambia e non si può prescindere dall’attuale premier anche perché i Cinque Stelle non reggerebbero un altro presidente del consiglio».
Nel pomeriggio Renzi si reca nel suo ufficio a palazzo Giustiniani. Telefona, si confronta, prova a stilare gli scenari possibili. Al momento il più probabile resta un nuovo gabinetto presieduto dall’avvocato del popolo. Impazza già il totoministri: la Difesa e le Infrastrutture potrebbe toccare a Italia viva. L’ex rottamatore punta tutto su Ettore Rosato, Raffaella Paita e Maria Elena Boschi. Anche se i suoi detrattori sussurrano: «Porta avanti Rosato per arrivare a sé stesso».
Andrea Orlando dovrebbe entrare al governo con il ruolo di sottosegretario alla presidenza del Consiglio, modello Gianni Letta negli esecutivi Berlusconi. E poi ancora si vocifera di un Lorenzo Guerini, oggi alla Difesa, che sarebbe trasferito al Viminale, ministero ambito anche da Luigi Di Maio. Eppure c’è chi pone una domanda: «Ma se la Lamorgese, una tecnica brava, è stata scelta dal Colle, cambiarla non significa sconfessare Mattarella?».
Altro nodo la casella dei servizi segreti che secondo le ultime indiscrezioni dovrebbe essere riservata a un tecnico in modo da non scontentare nessuno. Eppure, gira nel palazzo: «Renzi chiede al premier di cedere i servizi segreti. Vi ricordate quando avrebbe voluto piazzare lì l’amichetto Marco Carrai?». Nel frattempo l’ex rottamatore esce da palazzo Giustiniani per recarsi nuovamente al Palatino.
E prima di entrare negli studi di Quarta Repubblica non può non ricordare che lui, Matteo, non gioca per ottenere un riassetto dell’esecutivo: «Non è certo una questione di poltrone». Sarà vero?
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