Il segretario di Stato Usa Mike Pompeo e il premier Giuseppe Conte (Foto Riccardo Antimiani/LaPresse)
4 minuti per la letturaNon si placa il nervosismo della politica e non dipende dal sentore che possa cadere il governo in carica. Al contrario dipende proprio dalla impossibilità attuale di superare questo governo che però in definitiva del tutto non accontenta nessuno. Così si galleggia fra la necessità di portare avanti l’ordinaria amministrazione e la ricerca continua di un colpo d’ala che possa davvero cambiare il segno dell’attuale stagnazione. Il mondo va avanti e il governo deve affrontare quel che accade. Capita così che arrivi a Roma il segretario americano di stato Pompeo e la faccenda non è delle più semplici. Il segretario non rappresenta solo una amministrazione alla vigilia di una aspra scadenza elettorale, ma anche un presidente la cui credibilità è piuttosto bassa e la cui linea politica risulta molto, ma molto ondivaga e determinata dalle sue contingenze personali. Tuttavia si tratta sempre del nostro alleato storico e principale che viene a farci visita mentre la nostra politica ha ondeggiato fra aperture alla Cina, adesione alla nuova linea europea (che a Washington piace poco), problemi con il fronte mediterraneo dell’Africa (da cui Trump vuol tenersi lontano). Così si cercherà di barcamenarsi, sperando di evitare ingerenze statunitensi nella nostra situazione precaria, ma anche cercando di mantenere comunque un ruolo internazionale che ci è necessario per tenere sul fronte UE, dove gli attacchi subdoli al meccanismo del Recovery Fund non cessano, sicché c’è poco da dormire sonni tranquilli.
Sul fronte interno la stabilità non esiste, sebbene di crisi di governo alle porte non sia proprio il caso di parlare, almeno per ora. La preparazione della legge di stabilità, preceduta dalla presentazione prossima della nota aggiuntiva al DEF, non è un affare banale. Sperando che la presenza di positivi al Covid fra i senatori non blocchi i lavori del parlamento (c’è anche un decreto legge in scadenza), si giungerà ad un primo confronto sulle linee guida per i piani da presentare per il Recovery Fund. La notizia che trapela per cui sarebbero pronti piani per appena 100 dei 206 miliardi ottenibili (e speriamo che siano piani accettabili e seri) non lascia tranquilli, senza contare la spada di Damocle che continua a pendere e che si chiama questione MES. In questo contesto una parte della maggioranza prova a lanciare la palla in tribuna, tanto per vedere l’effetto che fa. Ci riferiamo all’annuncio di una revisione del nostro sistema fiscale che secondo alcuni potrebbe addirittura andare nella legge di bilancio per avere i primi effetti il prossimo anno. Ora tutti quelli che hanno ancora un po’ di realismo capiscono che buttarsi su un argomento così spinoso in un paese che unisce una evasione record con un deficit del PIL che si aggirerà intorno al 160% costituisce un bell’azzardo.
Toccare i meccanismi che, per quanto squilibrati e poco razionali, garantiscono comunque un certo gettito fiscale, richiede di non mettere a rischio il monte delle entrate. Sappiamo già che se si pensasse di farlo col retropensiero che i soldi che verranno a mancare saranno compensati dall’arrivo dei fondi UE, saremmo su una strada tanto sbagliata quanto pericolosa. L’Europa ci ha già avvertito sulla inaccettabilità di una manovra del genere, sicché si aprirebbe solo la via per rafforzare i nostri avversari in sede di Commissione e Consiglio europeo e per mettere in seria difficoltà il nostro commissario Gentiloni. La realtà è che un alleggerimento delle imposte, fosse pure limitato a quanto grava sui ceti medi (ma se si vuole immettere denaro nei consumi sarà gioco forza occuparsi anche dei redditi medio-alti), potrebbe essere compensato solo da una reale riduzione dell’evasione.
Si torna così all’eterna casella di partenza di quel gioco dell’oca che nella storia repubblicana è la riforma fiscale. Sappiamo benissimo che adesso si pensa, fra il resto, di puntare sul contenimento dell’uso del contante con meccanismi anche un po’ fantasiosi (bonus fino a 300 euro per incentivare chi usa i pagamenti elettronici, lotteria degli scontrini). Già tempo fa un progetto più o meno simile era stato di fatto stoppato dai Cinque Stelle (se ricordiamo bene con presa di posizione dello stesso Di Maio) che erano preoccupati del danno che l’imposizione dell’uso di terminali per i pagamenti elettronici avrebbe comportato per il piccolo commercio e non solo quello (che evidentemente M5S considera un suo potenziale bacino elettorale).
Si tenga conto che solo una riduzione del peso fiscale su una certa platea di contribuenti senza che questo comporti ricadute su altri può portare consenso. Se invece, come pare probabile, quel risultato deve essere conseguito colpendo altri settori, ciò comporterà inevitabilmente spazi per un acuirsi delle varie demagogie anche se si trattasse semplicemente di colpire platee di elettori che traggono profitto da situazioni che bonariamente si potrebbero definire ai limiti della correttezza contributiva. Vedremo presto se la proposta di riforma fiscale avanzata di Cinque Stelle e prontamente raccolta dal PD può essere qualcosa di più di una trovata per accalappiare consensi. Ci limitiamo a notare che sono promesse che non portano bene se poi non si concretizzano: si veda come è finita con Forza Italia per il famoso slogan “meno tasse per tutti”.
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