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Nella continua rincorsa al rilancio che travaglia le forze di maggioranza il problema della riforma elettorale ha sempre costituito uno degli elementi più importanti. Fino a ieri sembrava però che tutta la questione riguardasse più che altro la soglia di sbarramento che, fissata al 5%, di fatto metteva probabilmente fuori gioco i piccoli partiti dentro e fuori la coalizione. Sino ad oggi i Cinque Stelle non erano stati molto partecipi del dibattito, nonostante fosse un loro parlamentare, l’on. Brescia, a tirare le fila dei negoziati in quanto presidente della commissione Affari Costituzionali della Camera.
In effetti sembrava che i temi cardini del dibattito fossero due: il primo immediato, la scelta o meno di un sistema di tipo proporzionale; il secondo più in là nel tempo, la ridefinizione dei collegi elettorali necessaria col taglio previsto dei parlamentari (che si dava per sicuramente confermato dal referendum). Queste questioni di geografia elettorale, che gli specialisti sanno benissimo essere cruciali, si sarebbero però definite nelle segrete stanze del Viminale in parziale dialettica con un pugno di esperti dei partiti: non è roba che si presti a farne oggetto di coinvolgimento dell’opinione pubblica, se non eventualmente a cose fatte ove ci fosse qualche manipolazione troppo evidente.
Sul proporzionale alla fine sono d’accordo quasi tutti. Certo per spirito polemico qualcuno può buttare lì provocazioni sul sindaco d’Italia, sul cancellierato, sull’elezione diretta del premier, ma sono argomenti polemici, non proposte che possano avere un seguito. Al momento, con la frammentazione che c’è e con la mobilità molto forte dell’elettorato, va bene un proporzionale, che può incrementare la frammentazione negli avversari e che comunque consente ad ognuno di sottrarsi a negoziati sulle spartizioni future da fare al buio prima che le urne diano il loro responso.
In questa situazione si è inserito il nuovo volto assunto dalla questione referendaria sulla legge grillina che taglia i parlamentari. Per continuare a sostenerla, cosa necessaria per tenere in piedi la coalizione di governo, il PD ha trasformato la riforma elettorale nello strumento che toglierebbe alla decisione di ridurre il numero dei seggi disponibili il significato di un banale attacco qualunquistico alla casta. E’ dubbio che una riforma elettorale possa riuscire nell’impresa, ma è vero che era necessaria per l’aggiustamento dovuto al calo dei posti disponibili.
Zingaretti ha deciso di forzare la mano sul tema, preoccupato della crescita di opinioni autorevoli contrarie allo schieramento per il sì anche all’interno di personalità riferibili alla sinistra o militanti direttamente nel PD. Ottenere una accelerazione gli serviva anche per far vedere che il suo partito pesa ed è in grado di imporsi tanto alle riluttanze interne alla coalizione, quanto alle neghittosità del governo.
Cosa è riuscito ad ottenere? Qualche soddisfazione di bandiera, più che dei risultati concreti.
In commissione alla Camera si discuterà della bozza sul tappeto a partire da martedì prossimo. Le incertezze su come si svilupperà questo esame che deve portare poi il testo in Aula sono molte. Il segretario del PD avrebbe voluto che poi il testo fosse approvato dall’Aula almeno prima del voto referendario. Impossibile, ma come contentino gli si è concesso che si vada in Aula il prossimo 28 settembre (sempre che in commissione concludano i lavori, ma su questo non dovrebbero esserci sorprese). E’ la classica vittoria di Pirro.
La discussione avverrà infatti dopo che si saranno già conosciuti gli esiti sia del voto referendario sia di quello delle regionali e amministrative. Significa confrontarsi in un clima pesantemente condizionato da questi esiti, che non solo possono essere da un lato ambigui (per esempio se al referendum i no avessero comunque percentuali rilevanti) e dall’altro poco confortevoli per i partiti della coalizione di governo. Le opposizioni avrebbero un meraviglioso terreno per sfruttare a caldo tutte le contraddizioni che potrebbero emergere e le varie rese dei conti interne ai partiti della coalizione di governo non faciliterebbero certo un esame sereno della questione elettorale.
Accanto a queste future difficoltà ne è insorta una crediamo imprevista. Ieri il presidente della commissione, nonché estensore della bozza on. Brescia (M5S) ha rilanciato il tema di reinserire nella riforma le preferenze. La giustificazione è la solita: così i cittadini potranno scegliere direttamente. Si tratta però di una spiegazione propagandistica, priva di fondamento. Quando c’erano, le preferenze erano poco usate dagli elettori e molto manipolate dai partiti e dalle loro correnti, esistendo molti accorgimenti, chiamiamoli così, per indirizzarle in un certo modo (e sono state soppresse a furor di popolo perché ritenute inquinanti).
Inserirle nuovamente nel contesto attuale di partiti dilaniati da lotte correntizie e di fazione, non sarebbe certo offrire strumenti che contrastino il corrompersi della presenza di forze politiche dentro cui navigano personaggi con scarso senso del valore delle istituzioni e, perché non dirlo?, di cosa significhi bene comune.
La proposta Brescia insomma sembra più un contributo ad alimentare dibattiti opachi, per rallentare persino un primo recepimento della riforma (peraltro molto problematico), che il frutto di una preoccupazione per incrementare il tasso di partecipazione politica.
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