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Giuseppe Conte

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Conte prosegue nel mantenersi lontano dalla vita pubblica pur in un momento in cui le tensioni non mancano, per certi aspetti crescono, e si continua a parlare, a metà fra il retroscena e il gossip, di un possibile rimpasto di governo dopo il tornante del 20-21 settembre. L’immagine che si lascia filtrare è quella di un premier impegnato nelle cose che contano (la definizione, di sponda coi ministri Gualtieri e Amendola, dei piani per ottenere i fondi europei) e convinto che le diatribe su referendum, elezioni regionali e roba del genere siano tempeste in un bicchier d’acqua.

Ci si basa sempre sull’idea che questo governo non abbia alternative, qualsiasi cosa possa succedere: lo blindano sia le scadenze dei provvedimenti di bilancio sia la necessità di non mancare la scadenza di metà ottobre per l’invio dei piani a Bruxelles. Contribuisce anche, diciamoci la verità, la scelta dell’opposizione di destra di mostrare il suo volto peggiore, tutto populismo e demagogia, che costringe anche gli insoddisfatti delle performance governative a sostenere un esecutivo la cui caduta potrebbe portare ad incognite pericolose: magari non tanto per la “democrazia” (termine che, messo così, è piuttosto astratto), quanto per la tenuta di un paese che nell’attuale momento delicato ha bisogno di non perdersi in avventure demagogiche.

Sono ragionamenti che hanno il loro fondamento, ma che non sono pienamente esaustivi. La scelta di procedere alla formulazione dei piani per l’impiego dei 200 miliardi attesi dalla UE, il continuo silenzio sull’uso del MES, tutto fatto lontano da un dibattito che coinvolga il paese, non ci sembrano soluzioni felici. Innanzitutto così facendo Conte di fatto diventa condizionato dal sistema burocratico-politico che si muove attorno ai ministeri: un mondo non privo di problemi, ma soprattutto incapace fino ad ora di coagulare le potenzialità del paese attorno ad alcune chiare visioni strategiche. Renzi, le cui capacità di fare battute efficaci sono note, ha detto, riferendosi alla questione del MES, che Conte deve decidere se vuol fare il capo del governo o il capo dei Cinque Stelle. In realtà la domanda che ci si fa è se il premier non voglia più semplicemente essere il capo del complesso politico-burocratico che da tempo tende a guidare la politica italiana approfittando della crisi delle forze politiche.

Il nervosismo per questa incognita si coglie in molti segnali: i continui rilievi dei vertici di Confindustria, punzecchiature di alcuni uomini politici, ma soprattutto una costante crescita di prese di posizione di “opinion leader” a favore di un voto contrario alla riforma sul taglio dei parlamentari. Nonostante sondaggi che, chi con maggiore chi con minore enfasi, danno per sicura una vittoria dei “sì”, personaggi significativi si schierano apertamente contro quella che, la si metta come si vuole, è e rimane una impennata del populismo grillino. Ci pare di cogliere una decisa volontà di provare a ridimensionare il peso politico dei Cinque Stelle nei mesi futuri: contando su risultati elettorali che si prevedono poco brillanti per loro, si auspica che non possano narcotizzare questa realtà con la celebrazione di un successo referendario a sostegno della loro demagogia.

Si potrà realizzare questa aspettativa, che evidentemente è connessa con la necessità di avere un governo che sia più libero dal loro condizionamento nel gestire la partita dei fondi europei? Indubbiamente siamo davanti ad una grande incognita, per la semplice ragione che non è ancora veramente chiaro quale sia il sentimento prevalente nell’opinione pubblica. Certo il realismo, piuttosto cinico, dei professionisti della politica è che comunque vadano referendum ed elezioni regionali e amministrative, il quadro parlamentare rimane quello determinato dalle elezioni del 2018, cioè con M5S in posizione di maggioranza relativa. La prospettiva di incrinare questa forza attraendo nell’area dei governativi responsabili il partito di Berlusconi non si fonda su certezze, perché non è detto che FI possa davvero fare il salto di appartenenza andandosi ad alleare con una coalizione piuttosto inquieta come quella attuale.

Per queste ragioni, al momento, il dibattito politico si concentra su una questione piuttosto laterale come è la riforma della legge elettorale. Innanzitutto diciamo che questa non risolve affatto il problema delle approssimazioni realizzate col taglio dei parlamentari: redistribuisce, obbligatoriamente, il disegno dei collegi, ma di suo non incide sulla questione principale che è quella del Senato. Per toccare quell’aspetto è necessaria non una legge ordinaria, ma una nuova riforma costituzionale per togliere la regionalità dei collegi senatoriali e per rivedere le clausole di eleggibilità attiva e passiva.

Ora a prescindere dal giudizio che si voglia dare sul ddl Fornaro che al momento è dato per la soluzione preferita (e che chi scrive giudica al limite dell’indecenza costituzionale), si tratta di una riforma che richiede quattro letture, che è suscettibile di sottomissione a referendum confermativo, insomma di roba che molto difficilmente si può portare a termine prima che scatti il semestre bianco: un’altra garanzia per tirare avanti, che sicuramente gli strateghi del tirare a campare hanno ben presente.

Così siamo ai giochi di suoni e di luci: pirotecnici, illusori e condotti senza tener conto che mentre tutti stanno col naso in su a guardarli, sotto il paese può procedere verso mete non proprio felici.


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