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Gianluigi Paragone, Alfonso Bonafede e Luigi Di Maio

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Sulla già di suo complicata verifica di maggioranza prevista per il 7 gennaio si abbatte l’ennesimo episodio di turbolenza interna ai Cinque Stelle. Niente di inaspettato, perché la decisione di espellere il senatore Paragone era preventivata, tuttavia è un fatto che accentua la problematicità dell’attuale coalizione.

Fa tutto parte della strategia scelta da Di Maio, non sappiamo se da solo o dopo essersi consultato con i nuovi vertici, per reagire a quella che viene sempre più definita dagli osservatori come una crisi profonda del vecchio MoVimento.

È questo che dovrebbe preoccupare non poco Conte e per converso il PD. Probabilmente nel tentativo quantomeno di contenere quella che alcuni pronosticano come una autentica debacle elettorale a fine mese, il Capo Politico sceglie di provare a far sfoggio di tutta la potenza di fuoco che ancora gli consente un gruppo parlamentare di notevoli dimensioni. Soprattutto punta a sfruttare quello che secondo lui è il vicolo cieco in cui si trovano i suoi alleati al governo, cioè l’impossibilità per loro di accettare una crisi di governo che porterebbe ad una fine anticipata della legislatura.

Chi pensa che il tallone d’Achille dell’attuale maggioranza si trovi al Senato, per cui anche la perdita di una piccola pattuglia di Cinque Stelle sarebbe sufficiente a far saltare il governo, sottovaluta che lì c’è a disposizione una altrettanto forte pattuglia di membri dell’opposizione, di FI in particolare, pronta a giocare di sponda in modo che il governo non vada sotto. Questo calcolo vale anche per Italia Viva: solo un ritiro massiccio dei Cinque Stelle potrebbe portare alla fine del Conte 2 e questo consente a Di Maio e soci un potere di ricatto notevole.

Per questo il capo politico pentastellato si permette, come ha fatto col messaggio su Facebook di Capodanno, di imporre le sue bandierine senza alcuna mediazione: ritiro della concessione ai Benetton, intangibilità della riforma sulla prescrizione e altre quisquiglie simili. Lo fa perché deve puntellare la sua pretesa della centralità e imprescindibilità di M5S sotto la sua guida, pensando che così dimostrerà che PD e compagni non potranno far altro che sottomettersi.

È un calcolo che non si presta a dubbi? Non proprio. Ci sono almeno due variabili da tenere presenti. La prima è se davvero Di Maio e soci sono in grado di contenere le perdite di parlamentari a qualche frangia marginale. Al momento gli endorsment di Di Battista a favore di Paragone sono più che altro folklore, perché la presunta presa del cosiddetto battitore libero sul consenso elettorale di massa che ha incoronato i Cinque Stelle è tutta da verificare. È cambiato molto nell’opinione pubblica dal marzo 2018, quello del 33%, e non pare che Di Battista sia un buon interprete di questo cambiamento. Vale altrettanto per i sostegni cauti tipo quelli della Lezzi o di Morra, che non paiono orientati ad andare oltre ad aumentare qualche spina nel fianco del capo politico.

La seconda variabile è data dalla possibilità di incassare colpi senza fine da parte del PD. Anche il partito di Zingaretti ha delle scadenze elettorali da affrontare, e non sono solo quelle di gennaio, perché dopo arrivano le urne in altre regioni chiave (si pensi anche solo alla Toscana). La strategia del cosiddetto “campo largo” che ha inaugurato Bonaccini in Emilia con liste dei candidati governatori sganciate dal PD può diventare rischiosa se più che aggiungere voti a quelli del patrimonio acquisito dal partito gliene sottrae per il venir meno della fiducia nelle sue capacità di leadership politica.

Ora se il PD decide di smetterla di incassare colpi giusto per tenere in piedi il governo, cosa succede? Non c’è certezza che a quel punto a Di Maio e soci rimarrebbe fedele una massa consistente degli attuali parlamentari se ciò significasse andare ad una prova elettorale di certo poco attraente per loro. In un movimento in cui mancano i luoghi di confronto, in cui non ci sono sedi di elaborazione delle idee e delle strategie, nessuno sa quanti siano davvero i parlamentari disposti a sacrificarsi per imporre le bandierine care a Bonafede e a Di Maio. Se dovessimo giudicare dai numeri di adesione senza remore alla bandierina delle decurtazioni degli stipendi (che pure era un mantra dell’ideologia movimentista) avremmo qualche dubbio sulla consistenza della falange dei duri e puri.

La tattica del gruppo dirigente pentastellato non sembra insomma ben ponderata. Il calcolo che vede il PD impossibilitato a portare a fondo il confronto con M5S per non dare spazio a Renzi è troppo semplicistico se non tiene conto del fatto che il partito di Zingaretti non può auto annientarsi solo per non riconoscere che il suo ex segretario aveva le sue ragioni nel ritenere inaffidabili i grillini.

Lo stesso Conte, che ha appena detto che vuol restare in politica, non potrà raggiungere quell’obiettivo se è costretto a trangugiare normative e obiettivi che non stanno in piedi. Come è finita quando l’ha fatto nel suo precedente governo ormai lo sa e sa anche che una congiuntura astrale favorevole come quella che ha fatto nascere il suo secondo esecutivo non si ripresenterà quest’anno.

Insomma siamo ai bluff in attesa che nelle prossime settimane si debbano calare le carte. La politica seria non dovrebbe essere una partita di poker, ma quella di questi giorni ci si avvicina.


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