Il ministro Gaetano Manfredi
5 minuti per la letturaGli universitari, il Mezzogiorno e la scelta di Manfredi
La scelta di tornare a dividere il Ministero per l’Istruzione Pubblica da quello per l’Università e la ricerca va salutata con grande soddisfazione.
Si tratta di due comparti certamente connessi, ma anche con problemi distinti che è bene siano in capo a due ministri differenti, anziché semplicemente delegati a diversi viceministri e/o sottosegretari.
Altrettanto importante è la scelta di un uomo dell’università, anzi di un rettore come titolare del dicastero.
I problemi da affrontare infatti sono molti e vanno conosciuti, specie oggi che non è detto si possa far conto su una burocrazia ministeriale veramente all’altezza (ci sono funzionari competenti, ma c’è anche una stratificazione di “esperti” raccolti con criteri piuttosto discutibili dai precedenti titolari dei ministeri).
Il primo problema di cui sicuramente è consapevole il rettore Manfredi è la complessità e per certi versi l’ambiguità del “sistema università” dentro cui stanno molte cose diverse che si mescolano in un calderone che le mette tutte sullo stesso piano. In più in un sistema fortemente basato sulla autonomia degli atenei (cosa in sé positiva) è sempre più difficile fare scelte, perché ci si deve misurare col “consenso” delle componenti interne, cioè con un mondo che è a sua volta frutto di stratificazioni successive, non di rado avvenute in maniera che, tanto per non offendere nessuno, definiremo avventurose.
L’università ha davanti a sé almeno tre compiti principali: la formazione a livello medio-superiore di un buon numero di quadri necessari allo sviluppo di una società e di una economia avanzata; la formazione di un più selezionato numero di quadri a livello superiore-alto da destinare alle posizioni dirigenti del nostro sistema; la realizzazione di sedi di ricerca di eccellenza che ci consentano di stare nel sempre più competitivo contesto internazionale.
Oggi, sebbene a volte più a parole che nei fatti (ma le parole contano), fingiamo che tutti gli Atenei siano in grado di rispondere bene a tutte queste prestazioni, ma per di più non selezioniamo neppure le modalità di esercizio di queste funzioni: tanto per fare un esempio banale, si finge che lo stesso docente possa essere un formatore di quadri intermedi, un animatore di quadri di eccellenza, un ricercatore di almeno buon standard internazionale.
Rompere questa sedimentazione rappresenta quasi la classica missione impossibile, perché viene subito vissuta con due pregiudizi: quello del declassamento da parte di chi, istituzioni o singoli, non sia posto al livello più alto; quello della presunzione di corruzione nei meccanismi che dovrebbero selezionare gli idonei ai vari posizionamenti. Eppure se l’università italiana vorrà vincere la sfida del futuro dovrà misurarsi con queste strettoie.
È altamente apprezzabile che il rettore Manfredi (perché sia ministro non basta un annuncio, ci vogliono ancora alcuni passaggi formali che non sappiamo quanto tempo richiederanno) abbia parlato di “umiltà” nell’affrontare la prova a cui è stato chiamato. Abbiamo visto troppi proclami che volevano ribaltare il mondo e che alla fine hanno portato solo ad un peggioramento della situazione. Però delle decisioni vanno prese tenendo conto di quali sono le percezioni che gravano sulle problematiche dell’università. Una questione è senz’altro quella di mettere mano ad un sistema di reclutamento e di progressione delle carriere che faccia i conti con i pesanti pregiudizi di corruzione che gravano sullo stato attuale dei meccanismi. Intendiamoci: spesso si fa di ogni erba un fascio e si mettono sullo stesso piano corruzioni intollerabili che esistono e sistemi di cooptazione che a volte favoriscono i migliori, ma altre, per il principio di eguaglianza fra i docenti che selezionano, consentono scelte al ribasso. C’è un evidente bisogno di inserzione di energie giovani negli atenei e fa bene Manfredi a chiedere un piano straordinario per l’assunzione dei ricercatori (ma ci aggiungerei anche di un po’ di giovani associati e di svecchiamento degli ordinari). Deve però porsi il problema di come non buttare soldi perché accanto agli allievi di studiosi qualificati che selezionano con severità entrino, sempre per par condicio, quelli di docenti che puntano solo ad avere “assistenti” che li sgravino dei loro compiti e che non facciano loro ombra.
Poi c’è il tema di fare davvero i conti col sistema del cosiddetto 3+2, cioè del che fare delle lauree di primo livello che allo stato attuale sono, salvo eccezioni nei settori scientifici, più o meno pezzi di carta di scarsa utilità. Se vogliamo davvero incrementare il numero dei nostri laureati superando il gap che abbiamo con altri paesi, bisogna accettare che il primo livello sia la laurea “normale”, mentre il secondo corrisponda davvero ad una qualificazione superiore e non semplicemente alla prosecuzione di quanto fatto nei primi tre anni. Questo pone il problema del valore legale dei titoli di primo livello nell’accesso per esempio alle professioni pubbliche: davvero per insegnare ai bambini delle elementari o ai ragazzini delle medie ci vuole un ciclo quinquennale di studi? Oppure per lavorare a molti livelli delle varie burocrazie?
Un ultimo tema urgente è la promozione di sedi di eccellenza della ricerca. Ormai molti stati nostri concorrenti, a cominciare da Francia e Germania, hanno meccanismi che puntano a questi risultati. Chi scrive ha avuto occasione di far parte di panel di selezione sia in Francia che in Germania ed ha toccato con mano quanto questi sistemi abbiano alte potenzialità che da noi faticano ad imporsi. Il premier Conte ha fatto riferimento all’avvio dell’Agenzia Nazionale per la Ricerca: speriamo non sia il solito carrozzone da infarcire di esperti designati uno per partito, ma speriamo soprattutto che sia in grado di capire che il quadro di valutazione della ricerca, che so, in fisica, non è eguale a quello della ricerca in medicina e a quello della ricerca in storia (perché ormai, ma questo un rettore lo sa per esperienza, capirsi fra chi pratica le diverse discipline non è così semplice). Insomma è una bella sfida quella che ha davanti Gaetano Manfredi, ma che la vinca è nell’interesse di tutti, e in primis delle nostre giovani generazioni che altrimenti si troveranno sempre più disarmate in un mondo dove la “conoscenza” è l’arma con cui il mondo sviluppato può difendere il suo ruolo e la sua storia.
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