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Ripartenza va bene, ma per dove? Zingaretti plaudendo all’intervento di Grillo che ha ridimensionato Di Maio pur lasciandolo in carica, perché ha ribadito la centralità dell’accordo col PD, ha parlato appunto di un governo che deve ripartire. Subito il capo pentastellato ha buttato lì la sottoscrizione a gennaio di un nuovo “contratto” di governo, ma nel PD preferiscono parlare di “agenda” e Conte punta a ricompattare la squadra con un “ritiro” che non sappiamo se sarà anche un “seminario”.
E’ un festival delle parole, che peraltro non dicono nulla (e alcune portano anche male): la questione sulla tenuta del governo dipende dalla capacità dei partiti della maggioranza di mettere da parte le loro competizioni esterne ed interne per concentrarsi su una politica che serva all’Italia per uscire dalle sue debolezze, ma anche per essere in grado di affrontare le turbolenze internazionali.
E’ chiaro che la difficoltà per raggiungere questo obiettivo sta nella particolare situazione in cui si trova l’attuale parlamento: il partito di maggioranza relativa è in grave crisi e non si vede come possa uscirne rapidamente, l’opposizione continua a crescere nei sondaggi che la presentano come maggioranza virtuale, il PD è tentato dall’opzione di tornare ad un radicalismo di sinistra…
Il PD è tentato dall’opzione di tornare ad un radicalismo di sinistra alla moda convinto di riprendere centralità per un riaccendersi della contrapposizione sociale con la destra.
Questo quadro sembra non sia sfuggito a Grillo, perché la sua scelta pro alleanza col PD crediamo derivi dall’aver percepito che ormai la spaccatura del paese è fra il salvinismo e l’antisalvinismo. Non è più la tradizionale questione della contrapposizione destra/sinistra da cui M5S dichiarava di essere fuori. Quella, se mai è esistita nei termini in cui la si rappresentava, coinvolgeva letture in qualche modo intellettuali che volevano spiegare le direzioni della Storia (sì, proprio quella con la S maiuscola). Adesso il tema della spaccatura è molto più di pancia, divide sulle aspettative rispetto alla crisi immediata in cui siamo immersi. Salvini ha risposto a modo suo offrendo un certo sovranismo come risposta di difesa alzando le porte levatoie del nostro immaginario castello. Il fatto nuovo di queste settimane è che esponenti di giovani generazioni hanno con successo chiamato a raccolta quelli che invece non si trovano a loro agio nel rimpianto del mondo che fu, mentre proclamano volontaristicamente che si può anche avere una aspettativa diversa. Quale non è chiaro, per quanto tutta una serie di maestrini della vecchia sinistra provino a vedere se possono prestar loro qualcuna delle loro personali idee.
Il governo Conte 2 deve tenere conto del venire apertamente alla luce di questo nuovo clima nel modulare la sua azione politica, già a partire dall’approvazione della legge finanziaria. Rimandare tutto a gennaio, magari a dopo aver conosciuto l’esito alle regionali di Emilia e Calabria, è molto pericoloso. Intanto si finirebbe per rafforzare l’immagine di un paese sempre sull’orlo di una crisi, cosa che certo non ci giova nei rapporti internazionali, soprattutto in una Unione Europea che è piuttosto presa dalle difficoltà di partenza della Commissione von der Leyen e dalle tensioni di una governance sempre più intergovernativa. La situazione ingarbugliata del MES e del sistema bancario europeo, su cui ha attirato l’attenzione ieri il nostro direttore, dovrebbero portare a riflettere a fondo sulla necessità di avere un governo autorevole che possa agire in quel contesto.
Vi è poi il fatto che le situazioni politicamente difficili non si risolveranno in qualche seduta, poco importa che sia dedicata ad un ipotetico “contratto” o ad un altrettanto ipotetico “ritiro”. Pensiamo solo a argomenti caldi già sul terreno, la riforma del sistema giudiziario e quella del sistema elettorale. Sono temi molto delicati per le forze politiche, che da un lato sanno di avere a che fare con opzioni molto diverse fra le diverse componenti e dall’altro dovrebbero ricordarsi che il paese mal sopporta il loro avvilupparsi in tecnicalità che piacciono tanto agli addetti ai lavori, ma che la gente non capisce e vede solo come vuota retorica.
Ora sia consentito ricordare che per entrambe queste materie si tratta di riforme di sistema, cioè di qualcosa che interessa tutti, governo e opposizione, ma soprattutto la gente, perché si devono avere riforme che trovano il più largo consenso in modo da risultare legittimanti per un periodo ci si augura piuttosto lungo. Siamo sintonizzati su queste lunghezze d’onda? Non sembra: non certamente per la riforma del sistema giudiziario, e assai poco per la riforma del sistema elettorale. Inutile cercare di dare la colpa solo ad un attore, perché la voglia di collaborazione trasversale è più che modesta in tutte le componenti (e aggiungiamoci che dietro le quinte ci sono vari lobbismi al lavoro per promuovere loro interessi piuttosto particolari).
Eppure se di ripartenza si vuole parlare è da questo contesto che bisogna muovere. Ricominciare con la solita logica del diamo modo ad ogni partito della coalizione di piantare una sua bandierina (prescrizione al M5S, ius culturae al PD, proporzionale a IV e LeU, tanto per dire) non servirebbe a nulla: il governo rimarrebbe sulla corda semplicemente in attesa di un qualche evento che lo faccia definitivamente scivolare giù.
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