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RIVENDICARE il diritto all’innocenza contro il racconto criminogeno dell’Italia: è il motivo più convincente per votare «Sì» a tutti e cinque i quesiti referendari. Ma è anche il senso più autenticamente politico di questa consultazione popolare: far valere una ideologia, sì, proprio un’ideologia liberale, integrale e suggestiva quanto le tesi del giustizialismo populista, e a questo opposta, che faccia della presunzione di innocenza la premessa di qualunque racconto e discorso sul Paese.
La presunzione di innocenza è il diritto matrice su cui si fonda l’intero primato della democrazia sul pianeta, cioè la premessa per lo sviluppo di tutti i diritti che negli ultimi decenni si sono imposti alla consapevolezza collettiva. Le cosiddette libertà civili nascono e si affermano nello spazio pubblico come diritti perché la presunzione di innocenza assiste ogni differenza soggettiva dall’arbitrio del potere, fino a prova contraria. Non a caso chi discrimina gli stranieri, o piuttosto i gay, gli attribuisce indirettamente una sorta di supposta colpa d’autore, cioè una colpa fondata sul loro modo stesso di essere.
Senza innocenza, ab origine non sarebbe stata concepita la tutela della vita e dell’integrità personale, l’uguaglianza di fronte alla legge, il diritto all’onore, alla riservatezza, alla libertà di espressione e di associazione, e, da ultimo, molto attuale di questi tempi, alla resistenza contro un’oppressione. Non a caso noi riconosciamo questo diritto agli ucraini in quanto popolo innocente aggredito. Senonché, per uno strano fenomeno di corporativizzazione i diritti derivati, sostenuti da minoranze organizzate, sono cresciuti negli ultimi due o tre decenni più del diritto matrice, che ne era la cornice.
C’è da chiedersi perché, soprattutto in Italia, risulti intollerabile la discriminazione nei confronti delle libertà civili e si accetti invece che si comprima, fino a sovvertirla, la presunzione di innocenza. Che altro è l’arresto preventivo à gogo – che ci vede ai primi posti come Paese nel ricorso alla custodia cautelare -, se non esercizio di potere autoritativo, di pregiudizio, di sospetto, esattamente come la maggior parte delle discriminazioni di classe e di genere, contro cui si leverebbe prontamente la coscienza pubblica? Nella giustizia cautelare, il requisito del pericolo di recidiva, che il referendum si propone di abolire, è l’emblema di questo pregiudizio. Ti arresto per evitare che tu ripeta il reato. Vuol dire implicitamente dare per acquisito che tu il reato lo abbia commesso. Ma poiché non c’è prova di questo, vuol dire fondare una compressione della tua libertà, che è già una pena, sul mio sospetto.
Si può obiettare che i gravi indizi di colpevolezza non sono propriamente un sospetto, ma piuttosto una verità relativa e parziale su cui poggia la giustizia fallibile degli uomini. Che si concreta in una valutazione razionale e motivata di un’alta probabilità di condanna. Ma che alta probabilità di condanna osserva un sistema penale dove in primo grado quasi un imputato su due viene assolto? E se nei quattro anni, che in media intercorrono tra l’apertura delle indagini e il verdetto di assoluzione, all’imputato può accadere di finire agli arresti in una percentuale di casi abnorme rispetto al resto delle democrazie liberali, non sarà che l’azione penale ha ribaltato la presunzione di innocenza nel suo contrario?
La custodia cautelare è diventata il paradigma ordinario della giustizia in Italia perché è prevalso un racconto noir, nel quale il Paese appare peggiore di ciò che è in realtà. Una torsione moraleggiante attraversa da ormai decenni tutte le tre forme del discorso pubblico – il politico, il giudiziario e il giornalistico – in un intreccio perverso, dove il diritto si confonde con la morale, il processo ordinario con quello mediatico, la colpevolezza con un giudizio soggettivo di pericolosità, la prova con il sospetto, la condanna fondata sul giudicato con gli arresti preventivi e le confische sommarie. È la lingua feroce di un’alleanza in cui convergono bassi interessi politici e smanie di protagonismo giudiziario, intransigenze autoritarie e meschini appetiti corporativi.
A pagare il prezzo di un simile rovesciamento civile è soprattutto il Mezzogiorno, dove questo racconto teorizza e impone il paradigma di un’irredimibilità del male che suona come uno stigma per intere popolazioni, e fa strada a un diritto eccezionale, a misura dei cattivi, che commina arresti, sequestri e interdittive, decapita assemblee elettive e poteri pubblici, impone una camicia di forza sull’economia e sulla politica. Qui non si contano più i governatori di Regione, i sindaci, gli amministratori arrestati, costretti a dimettersi insieme con le loro giunte, e poi assolti dopo anni di calvario. Eppure chi guardasse il male che affligge la giustizia nella lente esclusiva del suo rapporto con la politica, rischierebbe di vedere il dito e non la luna. Dove la luna sono le migliaia di cittadini schiacciati con le loro imprese e le loro famiglie da una spietata macchina di dolore umano non giustificabile. Sono vittime invisibili, che non hanno neanche la voce per gridare la loro rabbia.
Contro questo potere autoritativo, che non risponde ad altri se non a se stesso, il referendum oppone in cinque quesiti il primato della presunzione di innocenza: limitando le misure cautelari, salvaguardando l’intangibilità degli incarichi pubblici e delle comunità elettive fino al giudicato, promuovendo la terzietà del giudice e la parità tra accusa e difesa, ancorando la responsabilità di chi ha un potere sulla vita e sui beni delle persone a una valutazione di merito e di correttezza professionale, e, da ultimo, scoraggiando la politicizzazione perversa della giustizia. Si vota per cambiare questi nodi centrali del sistema, ma anche per testimoniare un diritto all’innocenza come premessa di ogni relazione civile. Si vota per rifiutare poteri eccezionali e combattere l’illecito e il crimine con gli strumenti ordinari di ogni democrazia liberale, riportando il diritto penale alla sua più nobile funzione di rimedio estremo, e non di controllo preventivo e di massa su di cittadini che, fuori dal processo, oggi rischiano di essere trattati alla stregua di presunti colpevoli.
I cinque «Sì» siano la firma di una nuova costituzione materiale, che torni a coincidere con i principi di quella formale, scritta dai padri costituenti. Dove la presunzione di innocenza è la condizione di un affidamento reciproco tra le persone, e tra le persone e lo Stato. Uno Stato della fiducia, di cui i professionisti del sospetto non siano più né gli oracoli, né i signori.
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