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Settanta anni in Parlamento, nazionale ed europeo, su novantotto anni di vita. Un classico fil rouge, vien da dire ripensando alla biografia politica di Giorgio Napolitano. Il combinato disposto tra coerenza e rigore spiega perché il silenzio dell’età suoni come – ha scritto Giuliano Amato – il “massimo di benevolenza che la nostra indomita incultura può aspettarsi da lui”.

È comprensibile. Napolitano ha parlato per 70 anni di quel che sarebbe necessario, e dovrebbe provare una certa insofferenza per l’incompiutezza della transizione. Il Parlamento era stato sollecitato già nel giugno 1992, quando Napolitano aveva assunto la presidenza della Camera, ad affrontare “la più difficile delle prove: riformare se stesso […], rinnovare l’intero edificio istituzionale”.

Non serve, allora, discutere se, sia giusto o sbagliato che, poi, il due volte Presidente della Repubblica abbia usato tutta intera la tastiera della fisarmonica costituzionale di fronte – sempre Amato dixit – al deterioramento del sistema politico. Serve, piuttosto, chiedersi se sia servito il virulento “j’accuse” lanciato, ancora una volta in Parlamento (e dove, altrimenti?) a tutte le forze politiche, e non solo a quelle fautrici della rielezione una volta cadute rovinosamente le candidature, variamente determinate, di Franco Marini e Romano Prodi.

Anzi, meglio: se possa ancora tornare utile a portare a compimento la stremata transizione italiana, una volta riletta la ricostruzione di Daniela Tagliafico dell’aspro discorso. Il secondo giuramento, seguito da direttrice di Rai Quirinale, Daniela Tagliafico è tratteggiato. nel libro “Re Giorgio” (edito da Rai libri, e presentato non a caso alla vigilia del compleanno) alla stregua di una surreale seduta di autocoscienza del Parlamento, puntellata com’era da rumorosi applausi a ogni denuncia della “lunga serie di omissioni, guasti, chiusure, irresponsabilità” che avevano condotto all’emergenza della “impotenza ad adempiere al supremo compito costituzionale dell’elezione del capo dello Stato”.

Da quel 20 aprile 2013 in cui per la prima volta a un presidente della Repubblica fu riaffidato il ruolo di garanzia sancito dalla Costituzione repubblicana, il bis del mandato presidenziale si è ripetuto con Sergio Mattarella. Napolitano lo accettò “senza illusioni” e tanto meno “pretese di amplificazione ‘salvifica” delle proprie funzioni, impegnandosi anzi a farlo “fin quando la situazione del paese e delle istituzioni me lo suggerirà e comunque le forze me lo consentiranno”.

Poco meno di due anni dopo tenne fede alla parola data. Indubbiamente avrà avvertito ancor più gravoso il peso degli anni. Ma forse le dimissioni sono state il segno preveggente di contrapposizioni che non hanno fatto stare sereno nessuno. Fino all’ennesima bocciatura referendaria di una riforma istituzionale, che per di più trascinava nell’ignavia anche un diverso meccanismo elettorale.

Nuovo giro parlamentare, altra alleanza di governo, stesso sistema politico-istituzionale. Il presidente della Corte costituzionale, Silvana Sciarra, ha ben chiarito che il ruolo di garanzia del presidente della Repubblica “non è assolutamente indebolito” da una rielezione “fatta consapevolmente dal Parlamento”, come è appunto stato prima con Napolitano e oggi con Mattarella.

Lasciando perdere la coazione a ripetere, senza che i tormentati passaggi di questo decennio facciano davvero la differenza, si può leggere il libro di Daniela Tagliafico come la testimonianza composita (per le tante voci e storie) del profilo umano, politico e istituzionale dell’uomo che il New York Times definì “Re Giorgio” per la determinazione con cui cavalcò, a partire dal drammatico 2011, i marosi che si abbattevano anche sulla seconda Repubblica. Non si è mai arreso all’antipolitica, Napolitano: “ci hanno fatto credere che la politica è sporcizia o lavoro di specialisti”, disse citando un condannato a morte della Resistenza nel primo messaggio di fine anno al paese, “e invece la cosa pubblica siamo noi stessi”.

Né si rassegnava alla rissa e alla divisione, per favorire il confronto (“che ci si schieri liberamente a destra o a sinistra”) su riforme imperniate sull’”imperativo assoluto” dell’Europa. Un “sogno” che ha potuto anche essere scambiato per una “ossessione”, ma destinato inevitabilmente a segnare la prospettiva unitaria del paese, alle prese com’è con l’ideologizzazione del Mes, l’evanescenza del Piano Mattei e l’incompiutezza del Pnrr.

Con quel che ne consegue per lo storico divario tra Nord e Sud che Napolitano (proprio con Amato) nelle commemorazioni del centocinquantesimo dell’Italia “una e indivisibile” aveva tratteggiato come valore nazionale. Ovvero patriottico. Nemmeno di questo, però, si discute più. Anzi, sembra smarrirsi nei meandri delle emergenze temporali persino il ministero che tradizionalmente si occupava della questione meridionale. Mentre il ministero appositamente dedicato al federalismo, affidato al leghista Roberto Calderoli noto per l’abilità con cui maneggia la materia istituzionale (è pur sempre l’autore del Porcellum elettorale), insiste nell’immettere sul mercato delle deleghe autonome materie a la carte, squilibrate da una spesa storica vieppiù alterata dall’inflazione.

Quello della Tagliafico non è dichiaratamente un libro politico, ma induce a riflessioni politiche. Ci si interroga, legittimamente, sulle divisioni (che, dopo i voti di Comuni e Molise da elettorali stanno diventando egemoniche) nello schieramento di opposizione, tanto più ora che una donna, Elly Schlein, ha conquistato nei gazebo popolari (riducendo i circoli a orpelli d’apparato) la segreteria di un Pd smarrito nella vocazione maggioritaria. Ma, dato a Giorgia Meloni quel che è della leader di Fratelli d’Italia, ovvero di non essere una marziana ma la prima donna, e prima esponente della destra, ad aver conquistato il mandato di guidare il governo in Italia, sarà lecito interrogarsi su cosa stia accadendo in questa coalizione ora che, con la scomparsa di Silvio Berlusconi, tornano ad agitarsi i residui ideologici del sovranismo e del populismo.

A furia di beccarsi tra alleati, ogni scelta del governo politico finisce per pencolare sul crinale della legittimità maggioritaria macchiata dal peccato originale di una legge elettorale che avrebbe meritato una corposa revisione, quantomeno in relazione al taglio dei parlamentari, ma che nessuno ha voluto effettivamente cambiare, men che meno con una corretta conclusione dell’ultimo governo, guidato da Mario Draghi, della scorsa legislatura.
La nuova avrebbe dovuto essere una legislatura costituente. O almeno tale era stata presentata. È però cominciata sotto tutt’altro segno. Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, deve aver soppesato anche personalmente il suo messaggio d’augurio al Presidente emerito della Repubblica come rappresentante “di una cultura che si fa politica e di una cultura politica che si fa istituzione”.

Quale cultura – vien da chiedere – deve aver ispirato la ventina di senatori delle opposizioni che, al momento dell’elezione del presidente del Senato, hanno sostituito i voti negati da Forza Italia a La Russa. Questi costituiscano tanta roba (ben il 10% del Senato ridotto di un terzo). Vero è che si tratta di surroghe non riproducibili al di fuori del segreto dell’urna. Richiamano, però, la eterogenea confluenza dei 101 franchi tiratori che nel 2013 bloccarono l’elezione di Romano Prodi al Quirinale. Un déjà-vu, insomma. Possibile che Giorgia Meloni, che già si giocava la sua leadership sulla “coalizione conservatrice” non ne sapesse niente e non abbia avuto niente da dire.

Forse solo ora che la stessa eredità del centrodestra è insidiata dall’ortodossia destrorsa si può meglio comprendere la responsabilità delle tante occasioni perdute: dalle forche referendarie sotto le quali nel 2006 per l’opposizione del centrosinistra è caduta la riforma costituzionale a cui Berlusconi aveva già dato una impronta presidenziale, alla cancellazione dieci anni dopo del premierato assoluto perseguito da Matteo Renzi ma avversato non solo (o non tanto) da un irrigidito centrodestra ma anche da ambienti della sinistra. A dimostrazione che, al di là dei numeri e della coloritura, qualsivoglia maggioranza deve fare i conti con il sentire costituzionale che resiste nel paese. Prova ne sia che, nelle ultime elezioni, gli italiani si sono ben guardati dal concedere al centrodestra (o destracentro), che pure ci contava, il bottino grosso per fare da sola.
Si può allestire una nuova Bicamerale, immaginare una nuova Costituente o più semplicemente affidarsi nuovamente al Parlamento.

Non sarebbe affatto scandaloso se, resistendo a ogni reflusso ideologico, la democrazia dell’alternanza torni al centro del confronto tra la maggioranza e l’opposizione (al singolare e non più al plurale). Ma se è l’unità della nazione la vera posta delle riforme istituzionali, allora prima ancora che impugnare il fioretto sulla forma dello Stato e del governo, alla leader del maggior partito di governo, come alla segretaria del maggior partito di opposizione (e nel caso di Elly Schlein a maggior ragione per la parte assunta nel movimento Occupy-Pd sorto per fronteggiare il boicottaggio di Romano Prodi che non deve essere stata ininfluente nelle primarie), spetta il compito di bonificare il sistema politico dai veleni disseminati lungo la transizione istituzionale. Per non rischiare, questa volta, addirittura di lasciare il campo a una concezione delle istituzioni come quota parte del bottino elettorale. Quando sarà. Per chi ci sarà.


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