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Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia

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A GIUDICARE dai sondaggi il destino di Giorgia Meloni sembra segnato. Sarà lei la punta di lancia della coalizione di centrodestra. E, in caso di vittoria (che oggi appare molto probabile), potrebbe perfino essere la candidata a succedere a Mario Draghi. Se ciò avvenisse sarebbe la prima volta che, in Italia, una donna diventa presidente del consiglio.

La leader di Fratelli d’Italia può contare su diversi punti di forza. Primo tra tutti, la tempra da leader che la caratterizza fin da quando militava nel Fronte della Gioventù e che le ha permesso di raggiungere alcuni record.

Da ragazza, quando Gianfranco Fini era il capo di Alleanza Nazionale, Meloni è stata prima responsabile nazionale di Azione studentesca e poi presidente di Azione Giovani (i movimenti giovanili del partito erede del Movimento sociale italiano, da non confondere con l’attuale partito Azione), diventando così la prima presidente donna di un’organizzazione giovanile di destra. Eletta per la prima volta nel 2006 alla Camera, è la più giovane donna parlamentare di quella legislatura, durante la quale svolge anche il ruolo di vicepresidente. Nella legislatura successiva – e siamo nel 2008 – diventa ministro per la gioventù del governo Berlusconi: la più giovane nella storia dell’Italia unita.

Dopo la fondazione di Fratelli d’Italia nel 2012, in opposizione al governo Monti, diventa presidente del partito nel marzo del 2014. Grazie a questo curriculum, Meloni può giocarsi diverse carte. È giovane, essendo nata nel 1977. Ma ha anche un’esperienza di tutto rispetto grazie al fatto che siede in parlamento ininterrottamente dal 2006 e che ha ricoperto numerosi ruoli di responsabilità. È una donna, un elemento da non sottovalutare nella politica italiana dove la leadership è tradizionale appannaggio dei maschi. In tempi in cui l’elettorato appare estremamente mobile e sempre in cerca di novità, l’idea che una giovane donna, carica di energia e di esperienza, possa essere la risposta giusta potrebbe convincere molti. D’altra parte, i sondaggi annunciano già il possibile exploit di Fratelli d’Italia.

Durante questa legislatura – la più pazza della storia repubblicana – Meloni ha sapientemente tenuto fuori il suo partito da tutte le formule di governo. Lasciando agli altri partiti le fatiche di negoziati estenuanti e la responsabilità dell’amministrazione quotidiana ha evitato di logorarsi ricavando una posizione di vantaggio. Ecco perché, oggi, Fratelli d’Italia, dato in testa nelle rilevazioni, può fare il pieno di quella porzione di voti di destra in libera uscita dal M5s, dopo il fallimento dell’esperimento anticasta grillino, e perfino di una quota di elettorato della Lega, deluso dalle intemperanze di Matteo Salvini. Nello specifico, Fdi potrebbe fare il pieno dei consensi nelle aree del disagio delle regioni del Sud che nel 2018 premiarono i Cinquestelle, ma che oggi sono in cerca di un nuovo punto di riferimento politico. Una corsa che sarebbe parecchio aiutata dal centrosinistra se dovesse ricadere nella tentazione di alimentare lo spauracchio ormai ridicolo e fuori tempo del ritorno di una minaccia fascista. Insomma, in vista del 25 settembre, la vittoria sembra davvero a portata di mano.

Prima di questo esito, però, la leader di Fratelli d’Italia dovrà sciogliere diversi nodi. In primo luogo, l’idea di politica estera che emerge dalla sua coalizione. È noto, infatti, che il sospetto di filoputinismo nei confronti di Silvio Berlusconi e di Matteo Salvini è molto pesante. In passato la Lega ha sottoscritto un patto di collaborazione con il partito Russia Unita di Vladimir Putin e il suo leader più volte ha espresso ammirazione per il despota russo. Tutti ricordano ancora la figuraccia internazionale rimediata in Polonia dove Wojciech Bakun, il sindaco di destra di Przemys, cittadina al confine con l’Ucraina, gli rinfacciò di aver indossato le t-shirt con l’effige di Putin. Legami di amicizia e giudizi lusinghieri hanno caratterizzato, poi, l’amicizia tra Silvio Berlusconi e il capo del Cremlino. Tutto ciò ha avuto una ricaduta imbarazzante sul caso dell’invasione russa dell’Ucraina. Più volte Salvini e Berlusconi hanno lasciato intendere che proteggere l’Ucraina con le armi non è un buon affare per l’Italia. Ma questo pacifismo peloso ha lasciato sul centrodestra il marchio dell’infedeltà al patto atlantico proprio mentre il governo Draghi offriva il massimo della disponibilità dell’Italia e giocava un ruolo di leadership in Europa nel fronteggiare la minaccia russa.

Meloni, viceversa, ha professato la sua fede atlantista fin dall’inizio della guerra, in coerenza con il suo sforzo di accreditarsi presso il Partito Repubblicano americano. Nel febbraio scorso è stata l’unica italiana a partecipare al principale evento dei conservatori statunitensi, il National Prayer Breakfast di Washington. Difficile che l’atlantismo possa davvero diventare elemento discriminante nelle scelte dell’elettorato, ma certamente avrà delle ripercussioni sulla credibilità internazionale di un eventuale compagine di governo di centrodestra. Un altro tema rilevante riguarda il posizionamento in Europa. Ormai da due anni Meloni è presidente dell’Ecr, il gruppo dei conservatori e riformisti europei al parlamento di Bruxelles, che raccoglie i partiti della destra di governo euroscettica e antifederalista. La leader di Fratelli d’Italia insiste da sempre sul concetto di confederazione di patrie rivendicando la sovranità nazionale contro i progressi del federalismo europeo.

Ultimo ma non ultimo: sono ben note le simpatie della Meloni per Viktor Orbán. Il primo ministro ungherese è un fautore della democrazia illiberale e un nemico giurato dei diritti civili. Proprio per questi motivi, rappresenta una spina nel fianco dell’Unione europea che da tempo valuta di interrompere il flusso di fondi comunitari all’Ungheria per costringere Orbán a mettersi in regola circa l’attuazione dello stato di diritto nel rispetto dei valori fondamentali europei. L’insieme di questi fattori può creare parecchia diffidenza nelle cancellerie europee circa l’affidabilità di Giorgia Meloni una volta insediata a Palazzo Chigi. E un impatto sui partner europei avrà anche il programma economico del centrodestra.

Oggi, nella frenesia della campagna elettorale, tutti i leader – da Salvini a Berlusconi a Meloni – promettono soldi ai loro elettorati di riferimento. Ma sullo sfondo resta la necessità di attuare il Pnrr (che ha scadenza nel 2026 e che è destinato dunque a coprire quasi l’intero arco della prossima legislatura) e di non aggravare i conti pubblici con sforamenti di bilancio che provocherebbero certamente i sospetti degli stati membri e la reazione delle istituzioni di Bruxelles. Si spiegano così le liste di tecnici nei ruoli chiave dei dicasteri economici – da Fabio Panetta, membro del board della Bce, all’imprenditore veneto Matteo Zoppas, da Cesare Pozzi, economista alla Luiss, all’attuale amministratore delegato dell’Eni Claudio Descalzi – che Meloni ha fatto girare nei giorni scorsi per accreditarsi definitivamente come premier affidabile alla guida di un governo che non tradirà gli impegni con l’Europa. In meno di due mesi Giorgia Meloni è chiamata a giocare la scommessa più importante della sua vita politica. Ma la partita è aperta.


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