Giorgia Meloni, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini
4 minuti per la lettura«A me interessa che il centrodestra vinca, poi penseremo a chi alza la coppa. Perché se non si vince, la coppa non la alza nessuno». Questa frase, pronunciata ieri mattina ad Agorà Estate su Rai3 dal coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani, riassume perfettamente quale sia la posizione in merito a chi debba assumere il ruolo di premier in caso di affermazione alle urne del centrodestra e il principale nodo da sciogliere nel vertice in programma – se verrà confermato – domani alla Camera dei deputati, in una sede istituzionale e in territorio neutro, così come esplicitamente richiesto da Giorgia Meloni.
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La questione della leadership, dunque, lungi dall’essere risolta, alimenta ancora tensioni nonostante la ritrovata compattezza dello schieramento dimostrata con la fine dell’esperienza Draghi e il disgelo dei rapporti fra i tre leader dei principali partiti, dopo mesi di buio.
Mentre il partito di Silvio Berlusconi continua a perdere pezzi – ieri ha registrato la defezione di altre due parlamentari, Annalisa Baroni e Giusy Versace – alle parole di Tajani fanno eco quelle della senatrice Licia Ronzulli, fedelissima del Cav, che taglia corto sull’argomento («Non è il momento di parlare di nomi e leadership. È il momento di presentare agli italiani la nostra idea di Paese»), mentre al momento Matteo Salvini sembra dare ragione alla leader di FdI, sottolineando che il nome del capo del futuro governo di centrodestra dipenderà da chi prenderà più voti all’interno della coalizione.
Le tensioni nel centrodestra tra scelta di leadership e ripartizione collegi
In effetti questa regola non scritta, decisa in un vertice fiume a palazzo Grazioli il 18 gennaio 2018 in vista delle politiche del 4 marzo, fu all’epoca fortemente caldeggiata proprio dallo stesso Salvini. Da allora non è mai stata formalizzata ma è diventata una sorta di prassi consolidata che, come da mesi la Meloni sta ricordando ai suoi alleati giusto per chiarire che, con i sondaggi che danno il suo partito ormai vicino al 24%, spetterebbe a FdI l’indicazione su chi dovrebbe guidare l’esecutivo.
Forti anche dell’ultima rilevazione realizzata dall’istituto di ricerca Quorum/YouTrend per Sky Tg24 diffusa ieri – che registra che l’86% degli elettori di centrodestra ritengono che Giorgia Meloni possa essere una buona Presidente del Consiglio e, nell’ipotesi di assenza di una maggioranza post voto, che dovrebbe diventare premier il leader del primo partito (al momento lo è FdI con il 23,8%) – da Via della Scrofa non intendono fare sconti, né sulla premiership né sulle liste. Altra, quest’ultima, questione spinosissima: nel sopracitato accordo del 2018 infatti non c’era nero su bianco non solo il riferimento alla leadership ma anche alla ripartizione dei collegi uninominali previsti dal Rosatellum, sistema elettorale ancora oggi in vigore dopo la caduta anticipata del governo Draghi.
Rispetto al 2018 gli equilibri interni alla coalizione sono cambiati e adesso sono i meloniani a condurre le danze («Occorre rispettare un principio che noi, anche quando ci penalizzava, abbiamo sempre accettato – argomenta il capogruppo di FdI alla Camera Francesco Lollobrigida -, i sondaggi dicono che FdI vale il 50% della coalizione)».
Lega e Forza Italia non ci stanno a riconoscere all’alleata la metà dei collegi e spingono invece per una media ponderata nei risultati delle ultime politiche e delle europee, che ovviamente porterebbe ad una suddivisione ben diversa e meno favorevole alla Meloni che, nel vertice che si terrà presumibilmente domani chiederà anche di mettere per scritto il cosiddetto “patto anti-inciucio”, atto a scongiurare accordi post voto per la formazione di esecutivi con partiti estranei alla coalizione, come appunto è avvenuto con il governo gialloverde. Perché fidarsi è bene ma i patti chiari sono sempre da preferire.
Anche perché nelle ultime ore sta filtrando che gli azzurri e i leghisti potrebbero agire d’astuzia e chiedere che ad esprimere il premier non sia il partito che avrà preso più voti a livello di lista, ma quello che avrà più parlamentari tra Camera e Senato. Se FI e Lega dovessero formare un unico gruppo parlamentare dopo le elezioni potrebbero avere più eletti di FdI (anche in virtù di una ripartizione dei collegi meno sbilanciata sul partito della Meloni) e a quel punto rivendicare la premiership. Insomma, la tentazione di cambiare le regole in corsa è forte e il summit di coalizione si preannuncia tutt’altro che disteso.
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