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“Non abbiate paura della ‘Italexit’ – non succederà”, titolava ieri un articolo di Bloomberg. Certo che non succederà (l’uscita dell’Italia dall’euro), né ora né mai. Ma il fatto che se ne parli è significativo.

Ora che il combinato disposto centrodestra/M5S ha segato il ramo dell’albero su cui sedeva l’Italia di Draghi, come si bilanciano i rischi – molti – e i benefici – pochi – della nuova situazione?

Cominciamo dai benefici. Il principale dei quali è: ‘meno male che Mario c’è’ (per parafrasare lo stomachevole inno di Forza Italia). Non bisogna dimenticare che il Governo Draghi continua nella pienezza dei suoi poteri: mai come adesso la limitazione di un governo dimissionario agli ‘affari correnti’ ha poco significato, ché, nelle temperie di oggi, tutto quello di cui il Governo si occupava prima continua a essere al centro della sua azione. Paradossalmente, potrebbe anche farlo con maggiore efficienza, dato che, complice la stanchezza estivale, non ci sono più rami da segare, ‘9 punti’ da avanzare e rivendicazioni assortite da portare avanti. Certo, fra due mesi ci sarà il risultato delle elezioni, con i suoi prodromi di incertezze e strascichi di negoziati, ma di qui ad allora siamo protetti in un bozzolo di ‘Mario c’è’.

A proposito di protezione – e qui veniamo ai rischi – la Bce ha disvelato il TPI (Transmission Protection Instrument – Strumento per la Trasmissione della politica monetaria); un acronimo che qualche bello spirito bruxellese ha ribattezzato TPI: ‘To Protect Italy’. Come già spiegato su queste colonne l’attivazione di questo strumento (cioè gli acquisti di titoli sotto attacco) è deliziosamente vaga: la Bce, nella sua composita e infinita saggezza, deciderà volta per volta se le circostanze giustificano questo ‘pronto soccorso’. Vaghezza, questa, che ha vantaggi e svantaggi. I vantaggi stanno nel fatto che i mercati, non sapendo qual è il punto di non ritorno, saranno esitanti nel partire all’assalto dei BTp. Gli svantaggi sono speculari: non sapendo a qual punto la Bce reagirà, i mercati possono essere tentati di mettere alla prova la Banca.

Dai giorni delle dimissioni di Draghi l’iniziale cattivo umore dei mercati si è stabilizzato, ma la situazione è di inquieta attesa. Lo spread, rispetto ai livelli precedenti, si è allargato intorno ai 230 punti, ma non peggiora. Quello che è peggiorato è lo spread rispetto a Spagna (superiore ai 100 punti) e Grecia: in precedenza i rendimenti dei titoli greci erano sempre un po’ superiori ai nostri (‘meno male che la Grecia c’è’) ma ora la situazione si è invertita… In ogni caso, mette conto ricordare che l’aumento dei tassi parte da livelli ridicolmente bassi. Il recente aumento di mezzo punto dei tassi-guida della Bce li ha portati – udite udite – a zero… E anche il rendimento dei BTp, sopra il 3%, si confronta con un tasso di inflazione sopra l’8%, talché i tassi reali – che sono quelli che contano per le decisioni di spesa – sono ancora pesantemente negativi, e sostengono l’economia.

All’incertezza sui mercati dei titoli si aggiunge l’altro rischio, che è quello del gas russo. Il Governo Draghi ha fatto molto per metterci in sicurezza, e la nostra dipendenza dal loro gas si è dimezzata. Ma naturalmente, se i rubinetti dovessero chiudersi, ci troveremmo in piena recessione. Ma quanto è probabile questo esito? Secondo l’economista dell’energia Vittorio D’Ermo (in un articolo su Formiche.net), anche l’Italia – come l’Europa tutta – ha potere negoziale nei confronti della Russia, nel senso che se la Russia chiude i rubinetti, chiude anche l’afflusso di denaro che va da noi a loro. E non può vendere ad altri il gas e il petrolio. La situazione dei gasdotti è tale per cui non ci sono agevoli collegamenti con altri mercati.

La Tass ha trionfalmente annunciato che nel primo semestre di quest’anno la Russia ha aumentato del 63% le esportazioni alla Cina dai giacimenti nella costa del Pacifico, con gasdotti costruiti dal 2011 per rifornire Vladivostok dall’isola di Sakhalin. Ma ha accuratamente evitato di mettere le cifre in prospettiva: il 63% in più sono 6 miliardi di metri cubi in più, quando il mercato europeo di sbocco assorbe circa 190 miliardi di metri cubi. E di questi 190 miliardi sono solo 40 quelli forniti attraverso il mercato spot. Gli altri 150 sono contratti a lungo termine, con obbligo di consegna (che è l’altra faccia del ‘take or pay’, talché se la Russia non consegna si espone anche a pesanti penali.

Insomma, gli europei hanno un potere di mercato che Mario Draghi ha prontamente colto attraverso la proposta di mettere un tetto ai prezzi di gas e petrolio. Nel lungo periodo, quello che la Russia ha fatto con l’invasione dell’Ucraina è economicamente suicida.

Ai cambi correnti l’economia russa è più piccola di quella italiana e la principale fonte di ricavi da export sono le materie energetiche. Ora che si è rivelata un partner inaffidabile, i suoi clienti andranno a ricercare altrove gas e petrolio.
Insomma, la Russia si è fatta male da sola, e la guerra in Ucraina si rivela sempre più, come avrebbe detto Talleyrand, ‘peggio di un crimine, un errore’.
E da noi?

In quel laboratorio economico-social-politico che è l’Italia ci apprestiamo comunque a un nuovo esperimento, e molti opinionisti internazionali, da Paul Krugman a David Broder, sono preoccupati.

I partiti dovranno approntare i programmi elettorali a tempi di record e fino ad allora continueremo a navigare in una scomoda incertezza.


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