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Giuliano Amato

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Appena eletto all’unanimità presidente della Corte Costituzionale, Giuliano Amato ha smorzato subito l’entusiasmo dei leader politici che – con troppa faciloneria – hanno attribuito la responsabilità del caos determinato dall’elezione del capo dello Stato al metodo previsto dalla Costituzione e hanno scaricato la loro inettitudine sulla necessità di ricorrere alla scelta del primo magistrato della Repubblica attraverso il voto popolare.

“Non può essere vista come qualcosa che da sola si innesta in un sistema lasciandolo così com’è. I sistemi costituzionali – ha detto Amato – sono come orologi. Le rotelle sono tutte collegate e l’orologio funziona se gli ingranaggi si incastrano. L’elezione diretta del Capo dello Stato presenta benefici perché avviene in un giorno. Ma non puoi trasferirla così com’è in un sistema”.

 Se il presidente deve rappresentare l’unità nazionale – e non una parte politica – è molto meglio un processo di mediazione tra i partiti, come poi è sempre avvenuto, a volte anche in modo più complesso che con l’elezione del tredicesimo presidente della Repubblica.

In sostanza, dobbiamo smetterla di trattare la Costituzione come un Frankenstein di norme purchessia. Come quando si è ritenuto di passare dalla Prima alla Seconda Repubblica grazie ad una nuova legge elettorale, che, con il superamento del sistema proporzionale ha costretto le istituzioni a fare acrobazie per rimanere nel contesto dell’architettura costruita dai Padri costituenti. Basta solo ricordare a come si è preteso di far eleggere dal popolo il presidente del Consiglio, indicandolo – addirittura nella scheda – come il leader designato dallo schieramento vincitore della consultazione, mentre è una prerogativa del Capo dello Stato gestire, con i partiti la fase della formazione delle maggioranze e dei relativi governi. Ciò ha comportato serie lesioni all’ordinamento, senza assicurare una sostanziale stabilità.

Anche se si vuole archiviare – per carità di patria – il caso che ha dato inizio (con ritardo) all’attuale legislatura – ovvero la nomina di un presidente del Consiglio che conoscevano soli i suoi parenti ed amici – i diversi sistemi elettorali (sempre un po’ taroccati e cambiati quasi ad ogni elezione) a vocazione maggioritaria, non hanno consentito, se non in un caso (il secondo governo Berlusconi dal 2001 al 2006), ad una maggioranza e ad un esecutivo di esercitare le sue funzioni per una intera legislatura. Le differenti maggioranze (di centro destra come di centro sinistra) si sono sempre mandate a quel paese con le loro stesse mani. Nel 1994 fu la Lega a far cadere il primo governo del Cav. I due governi di Romano Prodi non ressero più di un paio di anni. La coalizione che portò ad una vittoria, stentata e discussa, il Professore nel 2006 era composta da 17 partiti e al Senato era praticamente in mano a personaggi un po’ strampalati sempre pronti a farsi venire ogni tipo di ‘’sturbo’’ (come si dice a Roma). Nella XVI legislatura Silvio Berlusconi riportò un successo elettorale che aveva pochi precedenti nella storia repubblicana. Ma dopo la rottura con Gianfranco Fini il suo governo andò avanti arruolando parlamentari col laticlavio da sottosegretario. Uno studioso di diritto costituzionale comparato come Giuliano Amato potrebbe spiegare che per far funzionare i sistemi maggioritari (chi vince, vince) non serve il bipolarismo (con alleanze tra i partiti meno lontani che tra quelli più vicini) ma il bipartitismo, sia pure con le differenze interne che fanno parte dell’iniziativa politica. 

Altrimenti si è costretti come in Italia a forzare la volontà degli elettori concedendo premi elettorali alla coalizione che ha avuto più voti (ma la ciambella non è uscita sempre col buco), provocando in questo modo dei veri e propri cartelli elettorali costituiti ‘’contro’’: Berlusconi o gli ex comunisti. Peraltro dopo il voto del 4 marzo 2018 anche il bipolarismo con le ‘’pecette’’ è venuto meno, perché sono entrati in campo altri interlocutori oppure sono cambiati i rapporti di forza all’interno delle coalizioni tradizionali. Col rischio – almeno nella prima fase – che venisse a mancare persino ogni contesto comune sul versante degli impegni europei ed internazionali dell’Italia.  Nella XVIII legislatura, poi, abbiamo assistito a pezzi appartenenti ad una coalizione (specialmente di centro destra) che facevano ampi giri di valzer con ex avversari politici, continuando, nel contempo, a definirsi alleati. Con la recente elezione del capo dello Stato, sono saltati anche i matrimoni morganatici e le unioni civili, sia a destra che a sinistra. Si dirà che anche in passato vi sono stati giochi trasversali tra i diversi partiti sia di maggioranza che di opposizione; ma almeno si confrontavano visioni differenti per quanto riguardava la prospettiva politica e le intese che si aprivano o si chiudevano nel far passare un candidato, ancorché di un altro partito.

 Tipico è il caso del Pci (pur dall’opposizione questo partito è stato quasi sempre in grado di essere determinante, durante le elezioni del capo dello Stato nella c.d. Prima Repubblica), che si divise sul nome di Amintore Fanfani, sostenuto dalla sinistra di Ingrao, mentre la destra era schierata con Giuseppe Saragat. Quale è la conclusione di questo ragionamento? Il sistema maggioritario, in tutte le sue manifestazioni truffaldine, è defunto. Confidiamo nel ritorno ad una legge proporzionale rafforzata da una soglia ragionevole di ingresso, indispensabile dopo il taglio orrendo dei parlamentari delle due Camere. Lasciamo che i morti seppelliscano i morti.  


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