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Giorgia Meloni chiede di serrare i ranghi attorno ad Enrico Michetti non senza strigliare gli alleati per scarsa fiducia nel “suo” candidato. Gualtieri, e più insistentemente il Pd, chiedono a Carlo Calenda di appoggiarlo dopo averlo accusato di essere sensibile alle sirene leghiste, o addirittura complice. Una situazione che vale per il ballottaggio di Roma, ma ha una ricaduta assai più amplia.
Sono esempi, cioè, che rappresentano la riprova non tanto e non solo dell’ovvio tentativo di accaparrarsi quanti più voti possibile in vista del duello finale, quanto dell’incompiutezza e criticità delle coalizioni sia di centrodestra e dei centrosinistra.
Meglio: sono la plastica raffigurazione di quella che allo stato è l’arma politica più forte in mano a SuperMario Draghi e che le urne del primo turno delle amministrative hanno platealmente confermato. Ossia che a fronte della progressiva e apparentemente inesorabile disgregazione del terzo polo pentastellato, i due contenitori che si fronteggiano non sono autosufficienti e non hanno la forza intrinseca per imporsi come compagine di governo adeguata a raccogliere le sfide della governabilità.
Draghi è arrivato a palazzo Chigi sull’onda di una emergenza sanitaria e di una necessità economico-sociale: attrezzare il Paese a ricevere i fondi Ue attraverso un piano concreto e credibile di riforme. Tuttavia nove-dieci mesi di governo hanno dimostrato che il presidente del Consiglio è l’unico collante possibile per aggregare una maggioranza sufficientemente ampia per riuscire nell’impresa.
Fatte le debite differenze, prima fra tutte un diverso meccanismo elettorale che per i Comuni è a doppio turno e obbliga alle coalizioni molto più che nelle elezioni politiche a turno unico dove proporzionale e maggioritario si mischiano, le urne amministrative hanno messo in mostra crepe e problematicità in entrambi gli schieramenti, squadernando la loro comune incompiutezza. Il centrodestra è sul banco degli imputati per aver fallito appuntamenti rilevanti come a Milano e aver messo in mostra candidati poco credibili. Ora la Meloni contrattacca ed è vero che Fdi ha guadagnato amministratori, ma il risultato complessivo della coalizione è stato insoddisfacente.
In tanti reclamano una maggiore unità, però l’unità non arriva per decreto: bisogna costruirla mettendo in campo una identità sufficientemente amalgamata, un programma condiviso e una leadership credibile e autorevole. Allo stato scarseggiano tutte e tre le condizioni. Fdi da un lato e Lega e FI dall’altro si divaricano sull’appoggio al governo e viaggiano ognuno per conto proprio in ambito europeo sul discrimine delle appartenenze. Latita anche una risoluta leadership visto che il tramonto di Berlusconi è inarrestabile e Salvini è in caduta da tempo. La Meloni può anche vincere sul piano elettorale ma per la premiership fatica a trovare un profilo adatto mentre occhieggiamenti obliqui a settori estremi ancora legati a simbologie e pratiche neofasciste ne zavorrano in modo strutturale le ambizioni.
Sul fronte opposto, il Pd canta giustamente vittoria e si gode il buon risultato nelle grandi città, oltre al rientro in Parlamento di Enrico Letta dopo il successo a Siena. Tuttavia non poche ombre accompagnano il lusinghiero risultato amministrativo, la principale delle quali, assai corposa, è il declino dei Cinquestelle. Letta ha proseguito, seppur con maggiore autonomia e spirito critico, sul percorso indicato da Zingaretti di una alleanza organica con il mondo grillino nella versione incarnata da Giuseppe Conte. Però i tonfi di Torino e soprattutto Roma segnalano come quell’intesa è lungi dal convincere gli elettori e provoca difficoltà tra gli stessi grillini. Il successo di Manfredi a Napoli non può mascherare la profonda crisi del MoVimento e immaginare di costruire una aggregazione vincente legandosi ad un bastione che crolla non è sintomo di saggezza. D’altra parte, pure stabilire contatti con l’area più moderata e centrista non è semplice. Pesano diffidenze e risentimenti, e comunque le due cose insieme non si tengono pena la costituzione di un informe cartello elettorale che poi si sfascia il giorno dopo aver chiusi i seggi. Il Pd deve scegliere alleati; il che comporta definire una linea politica in sintonia con quelle scelte.
Se così stanno le cose, la traballante ed eterogenea coalizione di larghe intese appare l’unico equilibrio politico possibile. È anche per questo che da più parti si alza la proposta di mantenerlo anche dopo le elezioni politiche, quando si terranno. In verità, più che una proposta sembra una acrobazia, un cammino su un filo senza rete. Vero. Però la questione resta. Complicata dal fatto che ad oggi Draghi è l’unico capace di tenere unito un assembramento che scalcia continuamente: per ultimo con la decisione di Salvini di non partecipare alla cabina di regia sulla delega fiscale. Se già così il carro governativo arranca, cosa accadrebbe nel momento in cui verrebbe tolta l’architrave? Se SuperMario infatti va al Quirinale, chi può sostituirlo nell’impresa? E se al contrario Draghi resta dov’è, quale accordo è possibile per il Colle che non laceri la tela di una maggioranza già abbastanza sfibrata?
La crisi italiana è sistemica anche perché a queste domande gli unici titolati a rispondere sono i partiti. Gli stessi che, di qua e di là, appaiono in grande difficoltà. Una spirale perversa.
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