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Al ministero dell’Economia nessuno si fascia la testa. Il verdetto arrivato ieri da Bruxelles sul Documento Programmatico di Bilancio era abbondantemente atteso. Perfino nei toni che hanno caratterizzato le 8 paginette che la Commissione ha dedicato al caso italiano. A portare l’Italia nella lista dei Paesi “rimandati a maggio”, quando usciranno le pagelle definitive sui conti pubblici dei Paesi Ue, ci sono stati tre fattori. Il primo è il disallineamento della spesa primaria netta, il nuovo parametro che ha preso il posto del vecchio disavanzo strutturale e che è stato cambiato in corso d’opera dagli eurotecnocrati di Bruxelles. Nel 2024 risulta in crescita dell’1,3% rispetto ad una correzione strutturale chiesta dall’Ue dello 0,9%. Un dato che riflette, in particolare, il peso del superbonus del 110%, che ha costretto il Mef a fare i conti con una zavorra che ogni anno persa circa 20 miliardi, proprio quello scarto dello 0,4% che viene contestato nelle raccomandazioni.
La Commissione, poi, punta l’indice su un altro capitolo: non abbiamo utilizzato le minori spese degli incentivi e dei sostegni contro il caro-bollette per ridurre il disavanzo, spostando queste risorse per la copertura di altri interventi contenuti nella manovra. Il tutto in quadro di finanza pubblica che prevede un manovra economica finanziata in deficit per oltre due terzi, fino a 15,3 miliardi di euro. A leggere meglio il documento della commissione, emergono poi altri due fattori di criticità.
Il primo, ovviamente, è quello relativo al debito pubblico che, secondo Bruxelles, nel 2025 continuerà a crescere portandosi a quota 140,6% del Pil. Nelle previsioni del governo, è previsto in lieve discesa, sia pure di decimale di punto, dal 140,2 al 140,1%. Ci sono poi una serie di altri numeri che non collimano perfettamente, come quello del deficit, che la commissione fissa al 4,4%, O, ancor, quello della crescita, più ottimistica se vista da Palazzo Chigi, con un aumento del Pil pari all’1,2% e più cauta se stimata da Bruxelles, con un incremento che non dovrebbe superare lo 0,9%. Una previsione, per la verità, in linea con quella di Bankitalia e Ocse (0,8%) e addirittura migliore rispetto a quella di Confindustria, che si ferma allo 0,5%.
Detto questo, è difficile però che l’anno prossimo la Commissione possa avviare il cosiddetto “meccanismo di allarme per squilibri di bilanci eccessivi”, in pratica il primo step della procedura di infrazione. Un percorso che potrebbe portare anche ad una sanzione teorica pari allo 0,5%, una stangata da 10 miliardi di euro. E’ vero che nelle raccomandazione diffuse ieri è stato richiamato lo spettro della procedura. Ma è altamente improbabile, per non dire impossibile, che la minaccia sia realisticamente realizzata nel 2024.
Per almeno due ordini di motivi. Il primo è che, questa volta, l’Italia non è affatto sola nella lista dei Paesi “cattivi”. Anzi, fra i nove “rimandati” e i 4 (Francia compresa) già bocciati, se ne salvano solo 7, e tra l’altro neanche quelli più grandi. Come a dire: la stangata toccherebbe un po’ tutti, con effetti a cascata su tutta l’economia europea che continua a marciare a ritmo molto ridotto. C’è poi da considerare la variabile, tutta politica, delle elezioni europee di giugno: se la sentirà l’attuale esecutivo ad avviare misure così impopolari a ridosso dell’apertura delle urne? Davvero difficile. Infine non bisogna dimenticare la riforma del patto di stabilità. La trattativa è tutt’ora in salita, le posizioni sono molto diverse. Ma, se si dovesse arrivare ad un accordo, magari con il via libera dell’Italia al Mes, è facile prevedere un periodo di transizione più o meno lungo verso le nuove regole. E, in ogni caso, oltre il 2024.
C’è però un elemento che non andrebbe preso alla leggera nelle raccomandazioni dell’Ue. Ovvero la necessità di utilizzare al meglio l’enorme dote di risorse europee a disposizione, a cominciare dal Pnrr, per spingere sulla crescita. E’ questo il vero snodo che potrebbe effettivamente fare la differenza fra la situazione dell’Italia con quella degli altri Paesi Europei. Magari accompagnando l’operazione con quelle riforme strutturali che sono nell’agenda dell’esecutivo e che spesso vengono bloccati dai mal di pancia di qualche partito o dalle resistenze delle immancabili lobbie.
Invece, se davvero il governo riuscisse a sbloccare la partita del Pnrr, attraverso la rimodulazione dei progetti già presentata a Bruxelles dal ministro Fitto, potremmo avere un effetto positivo sul Pil dello 0,5%. Un incremento che, a questo punto, accorcerebbe le distanza fra i conti italiani e quelli chiesti da Bruxelles e, soprattutto, ci consentirebbe di imboccare il sentiero virtuoso di una riduzione più marcata del debito. L’apertura di credito arrivata nei giorni scorsi dalle principali agenzie di rating va sicuramente in questa direzione.
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