Palazzo Chigi
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Giuseppe Conte si gioca la partita del giro di boa, quella in cui si deciderà se il suo governo reggerà fino all’elezione del successore di Mattarella, e di conseguenza quasi certamente fino al termine della legislatura, oppure se sarà sbalzato di sella da coloro che, magari sotto traccia, giudicano arrischiato far gestire al suo esecutivo i cospicui finanziamenti che arriveranno dall’Europa.
Con la conferenza stampa di mercoledì si sono chiariti alcuni aspetti della vicenda. Il primo è che Conte rimane vincolato al perno di questa maggioranza, cioè ai Cinque Stelle. Ciò non significa che ne sia banalmente succube, perché ormai ha acquisito peso e statura, ma semplicemente che non può o non vuole snidarli nelle loro contraddizioni. Lo si è visto chiaramente sul tema del Mes e ancor più su Autostrade, ma soprattutto lo si è capito quando, alla domanda di un giornalista, ha risposto esplicitamente che escludeva rimpasti.
SOLIDARIETÀ NAZIONALE
Ora sui primi due aspetti si può anche pensare che alla fine, da abile avvocato, Conte pensi di portare i Cinque Stelle all’accettazione di qualche dato di realtà (dei soldi del Mes abbiamo bisogno, con Autostrade dobbiamo trovare una via d’uscita perché farla crollare comporterebbe un colpo al mercato e all’occupazione poco utile al momento).
Sul rimpasto è evidente che si passerebbe per un deciso ridimensionamento della presenza pentastellata, cosa che Conte non vuole affrontare per le ricadute che implicherebbe. Deve tuttavia rapportarsi con la richiesta di tessitura di una solidarietà nazionale, richiesta che gli perviene autorevolmente dal Quirinale, ma che trova sponde tanto nella maggioranza (Pd e non solo), quanto nell’opposizione (Berlusconi e, sotto traccia, qualche ambiente della Lega). Non sappiamo se la cosa possa essere attribuita alla sua fortuna personale, ma è un dato di fatto che con l’attuale situazione politica un governo di solidarietà nazionale non si riesce a fare.
Salvini e Meloni hanno scelto la via dello scontro frontale col governo, perché è evidente che dire a Conte «se vuoi dialogare con noi basta che accetti i nostri piani» significa avanzare una proposta irricevibile. I vertici di Lega e FdI hanno scelto di scommettere sul crescere della rabbia popolare, intanto per lucrare sulle elezioni d’autunno e poi per far saltare il governo col ricorso alle urne.
LO SCONTRO
Su quest’ultimo terreno si sta riaprendo la partita della nuova legge elettorale, che sarebbe un proporzionale con sbarramento al 5%: abbastanza per mettere in difficoltà Renzi, ma anche abbastanza per consentire a ogni partito di fare il proprio gioco senza l’impiccio di stringere subito alleanze.
Non a caso Renzi riscopre la bellezza dello scontro maggioritario/bipolare, come avviene per sindaci e presidenti di Regione: è la via tradizionale con cui gli ingegneri della politica credono di poter obbligare alla creazione di coalizioni ampie. Peccato che poi queste si siano quasi sempre dimostrate delle ammucchiate che non riuscivano a tenere sotto controllo le fazioni che le formavano, ma, come si sa, non sempre si impara dall’esperienza. Non ci sono però molte possibilità che si riesca ad andare al voto anticipato, per tante ragioni più volte richiamate. E allora il vero problema per Conte è come evitare che un eventuale drammatizzarsi della crisi possa portare a un governo in qualche modo di emergenza a cui le forze parlamentari sarebbero costrette ad arrendersi su pressione degli eventi.
LA CHANCE PER CONTE
Qui arriva il vero significato degli “Stati generali dell’economia”, in cui il premier vuole raccogliere non solo le grandi agenzie sociali ed economiche, ma anche le più brillanti intelligenze del Paese (cosa ci sia dietro questa formula lo scopriremo, forse, vivendo). Se gestito con intelligenza e con vera mano di timoniere, questo consesso finirebbe per scavalcare i partiti, che avrebbero difficoltà a mettersi di traverso a quanto emerge dal convergere di quelle che possono essere le classi dirigenti sociali ed economiche del paese. Alla testa di questo consesso Conte potrebbe davvero accreditarsi come il perno della politica italiana, a prescindere da fantasie su un suo partito personale o roba simile.
UN REGISTA AUTOREVOLE
Il problema è però duplice. Da un lato questi Stati generali non è detto che raccolgano presenze “sociali” che siano davvero disconnesse dalla “politica”. La separazione fra società civile e Palazzo è una di quelle leggende metropolitane messe in giro per far paura ai bambini: in realtà gli intrecci e le connessioni fra le due sfere sono molteplici e continuano, nonostante oggi agiscano con forme e modalità diverse dai vecchi collateralismi. Dall’altro lato questi “stati generali”, se tali vogliono essere, devono mettere intorno al tavolo componenti che non è detto siano animate da un grande senso dell’appartenenza alla stessa comunità di destini.
Per ricondurle a quell’approdo ci vuole l’azione decisa di un “regista” che abbia la capacità e l’autorevolezza per imporsi tanto sulle parti sociali, quanto sulle forze politiche. Certo, potrebbero dargli un bell’aiuto le “migliori intelligenze” se non saranno scelte fra quelli che pensano prima ad accreditarsi nel maggior numero possibile di talk show e poi gettano uno sguardo altezzoso sul presente così poco attraente. Dal successo, almeno parziale, della strategia degli “Stati generali” dipende la stabilizzazione di questa fase politica. Se non ci sarà, finiranno per trasformarsi in un ulteriore colpo di piccone alla base della nostra coesione sociale.
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