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Dovrebbe iniziare la fase 2 del governo Conte, ma non sarà così facile. Due partiti della coalizione che lo regge sono usciti molto “provati” dal test elettorale di domenica: il PD in positivo e M5S in negativo. Si tratta delle due forze chiave, rispetto alle quali il premier è in posizione difficile: verso il partito del Nazareno, perché rappresenta l’anima responsabile e competente del suo esecutivo, verso il partito di Grillo perché è quello che l’ha messo al potere e che detiene una posizione di maggioranza relativa in parlamento. Il fatto è che i due partiti hanno orizzonti e problemi diversi con cui debbono misurarsi, rispetto ai quali il lavoro di mediazione a cui, da buon avvocato, vorrebbe dedicarsi Conte è assai arduo.

Il PD è uscito dalla prova elettorale con l’aura del vincitore che ha rotto un incantesimo che da tempo lo teneva prigioniero di una posizione marginale. I Cinque Stelle sono usciti letteralmente a pezzi, con l’immagine della forza che ha esaurito il suo ciclo vitale. Così il primo ha l’imperativo di consolidare quella che ritiene essere la ritrovata credibilità tanto verso le classi dirigenti quanto verso una quota significativa dell’opinione pubblica, mentre i secondi devono far passare la leggenda che alle elezioni locali vanno sempre male, ma questo non pregiudica la loro grande presa a livello nazionale.

Entrambe le rappresentazioni sono reazioni ottimistiche. Nel caso del PD non è ancora detto che esso abbia del tutto superato le sue passate depressioni. Intanto è ancora diviso in correnti che hanno visioni e soprattutto interessi non esattamente coincidenti. Grosso modo in questo momento ci paiono prevalere al suo interno due interpretazioni della congiuntura attuale. La prima vede il risultato dell’Emilia come la conferma che si deve puntare sulla credibilità che può derivare solo da un buon governo, molto coi piedi per terra e lontano dagli utopismi di moda. Per dire: Bonaccini è stato colui che ha invitato il partito a lasciar perdere una impostazione talebana della sugar tax. La seconda è quella che, con gli opportuni aggiustamenti, torna alla sempiterna idea del fronte popolare antifascista. Una impostazione che contiene sempre la speranza (o l’illusione) di poter con calma convertire i “compagni di strada” senza aver paura a concedere loro degli spazi identitari. E’ quello che Zingaretti e i suoi vorrebbero fare coi Cinque Stelle.
Nel caso di M5S la rappresentazione della distanza inevitabile fra risultati in elezioni locali e risultati in elezioni nazionali è semplicemente auto consolatoria: il crollo dei consensi è molto alto anche rispetto a precedenti elezioni locali, senza contare che quando il vento spirava nella loro direzione ne hanno anche vinte. Tuttavia quella spiegazione serve, o si creda possa servire per spiegare la forbice fra i due risultati: i Cinque Stelle vanno bene se mobilitano su grandi slogan che possono tradursi in realtà a livello di governo nazionale, faticano quando devono raccogliere consenso su politiche locali dove mancherebbero i poteri per realizzare le loro visioni.

Ci sono delle conseguenze che derivano da queste impostazioni e che diventano confliggenti nel rapporto fra PD e M5S. I pentastellati a causa di quella lettura della realtà non riescono ad uscire dalla trappola dei loro mantra. E’plasticamente evidente nel caso della prescrizione e delle concessioni autostradali, ma anche, per fare un esempio che nell’immediato non è sul tavolo del governo, in quello degli inceneritori. Gestire un compromesso fra ciò che una volta si chiamava il programma massimo e il programma minimo è sempre stato il punto critico di ogni movimento che ha ambizioni utopistiche di cambiare il mondo. Per farlo ci vogliono leader molto capaci e di grandi visioni, capaci di inventarsi la narrativa giusta per giustificare una discesa al livello della realtà storica. E’ quello che manca ai Cinque Stelle: tanto Grillo quanto Casaleggio jr sono figure buone per le fughe in avanti sul programma massimo, mentre i vertici politici del MoVimento non hanno alcun carisma da costruttori di scelte politiche misurate sulla realtà.

Quanto al PD, è imbrigliato dalla impossibilità di ridurre alla ragione i ministri pentastellati privandoli dell’arma di ricatto di far cadere il governo. Può certo puntare ad aggirarli proponendo dossier sufficientemente generici da far credere di muoversi a supporto delle loro tesi. Esempi tipici sono le politiche genericamente ambientaliste o la lotta all’evasione fiscale. Il limite è che anche in quei casi quando poi si deve scendere ad articolare gli interventi nel concreto nove volte su dieci si scopre che ci sono da violare i tabù cari ai Cinque Stelle. E poi in ogni caso non è che si può proprio sorvolare sugli argomenti controversi, che ormai sono sul tavolo. Per tornare al caso più impellente, quello della prescrizione, non c’è solo Renzi che giustamente marca stretto il PD, ma c’è tutto un vasto ambiente di giuristi, magistrati ed avvocati che hanno messo ben in chiaro che la riforma Bonafede è un pastrocchio indifendibile.

Eppure i vertici dei Cinque Stelle sembrano ancora decisi a tentare di imporre i loro mantra. Ne è un sintomo la scelta di nominare Bonafede capodelegazione al governo e lo è ben più della recita delle litanie tradizionali da parte del reggente Crimi. Se Zingaretti e i suoi consiglieri continuano a predicare benevola tolleranza verso queste impuntature, c’è chi come il capogruppo alla Camera Del Rio (non a caso di Reggio Emilia) richiama alla necessità di qualificarsi con una politica chiaramente orientata. Paradossalmente gli uni e gli altri hanno in mente le prossime tornate elettorali di maggio: chi convinto che bisogna trangugiare qualche boccone amaro per avere i Cinque Stelle alleati in quelle competizioni, chi è consapevole che se si perde la credibilità come forza di attivo riformismo l’attrattività del PD si riduce di molto.


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