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Non hanno ricevuto troppa attenzione le parole assai sensate dell’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti ed è un vero peccato, perché non sono solo un ragionamento di buon senso, ma un invito a riflettere su come funziona una democrazia degna di questo nome.
Ha detto colui che viene giustamente considerato una specie di “dottor sottile” del centro destra che non ha senso continuare in questo scontro muscolare che si finge avvenga fra gli angeli e i demoni. Converrebbe piuttosto mettersi tutti attorno ad un tavolo per riorganizzare il sistema paese con un accordo largamente condiviso. Solo dopo aver portato a termine quest’opera (volendo farlo davvero e non con la finzione di tirarla invano per le lunghe) si potrà portare il paese ad un confronto elettorale fra le varie forze in campo. Se non si fa così chi vince finirà semplicemente di comandare su un cumulo di macerie (quale che sia la legge elettorale che si metterà in campo, ci permettiamo di aggiungere).

È da tempo che varie voci, davvero parlanti al deserto, cercano di attirare l’attenzione sull’impasse che vive la nostra democrazia. Giusto ieri Antonio Polito sul “Corriere” richiamava quello che sanno tutti coloro che si occupano di cosa pubblica: il blocco delle decisioni amministrative e politiche che deriva dalla preoccupazione, talora dal terrore di politici e funzionari di finire sotto la scura di varie magistrature (Pm, Tar, Corte dei Conti) che intervengono per mettere ordine, nella loro visione, su questioni che si vorrebbero draconianamente irreggimentate da leggi, leggine e regolamenti introdotte per impedire la corruzione. Il risultato è che chi deve decidere non decide, chi può investire non investe, chi avrebbe vantaggio a sperimentare si guarda bene dal farlo.

Ovvio che la corruzione è una piaga endemica del nostro paese e che va contrastata, ma colpendo quella vera e non bloccando il funzionamento della vita pubblica. Nella transizione dagli equilibri esauriti della prima repubblica a nuove geografie del consenso politico non è inspiegabile che si sia stati attratti dalla scorciatoia di presentare tutto come una lotta fra i buoni e i cattivi: è in fondo la via più semplice per sperare di conquistare il consenso della gente. Ogni volta che si è tentato di uscire da questa dicotomia insensata ci si è scontrati con i sommi sacerdoti che presiedevano le liturgie anti-demonio delle due parti in causa.

Ricorderete come è finito il famoso patto del Nazareno fra Renzi e Berlusconi. Avversato da tutti i sommi sacerdoti delle due chiese, è naufragato miseramente nella impossibilità di trovare un candidato condiviso per la successione a Napolitano. Gli uni hanno alzato barricate contro l’ipotesi di una candidatura di Giuliano Amato, ero di essere stato socialista con Craxi, gli altri hanno impedito qualsiasi altro accordo di mediazione. Il risultato ultimo è stato il naufragio della riforma costituzionale abbandonata ad un referendum confermativo che ha consentito rese di conti fra varie fazioni al prezzo di impedire una ragionevole ristrutturazione del nostro sistema di gestione dell’equilibrio fra i poteri dello stato (una mancata riforma di cui continuiamo a pagare le conseguenze).

Non è peregrino immaginare che qualcosa del genere tornerebbe in campo se si volesse ragionare sull’invito di Giorgetti, perché i detentori dei poteri di scomunica che lavorano nell’uno e nell’altro campo (anzi adesso dovremmo parlare di molti campi, perché il bipolarismo non esiste se non nell’immaginario) non sono disposti a perdere il loro potere di interdizione. Siamo quotidianamente testimoni del lavoro che si svolge in questi sinedri.
Purtroppo siamo in presenza di un risorgente giacobinismo, che sarebbe semplicistico addebitare ai soli Cinque Stelle, che pure eccellono in questo campo. Questo spinge di nuovo ad investire le varie magistrature di compiti salvifici che esulano dalle loro possibilità, anche se non tutti i magistrati se ne rendono conto: rischiamo, pur in tutt’altro contesto e con tutt’altra valenza, di continuare a promuovere quella “repubblica dei giudici” che si diceva strutturasse l’evoluzione del capitalismo americano e che Giuseppe Dossetti richiamerà nel suo famoso discorso sullo stato al convegno dei giuristi cattolici nel 1951.

Realisticamente per accogliere l’invito di Giorgetti ci vorrebbero condizioni che purtroppo al momento mancano. Innanzitutto si richiederebbe una disponibilità delle forze politiche a ragionare in quei termini. Cosa difficile con una cascata di elezioni una dietro l’altra e con un mutamento delle tattiche di raccolta del consenso che oggi puntano non sulla proposizione di programmi credibili, ma su un mix di presentazione di libri dei sogni e di delegittimazione personale degli avversari, perseguita anche con ogni mezzo. In secondo luogo sarebbe necessario che l’opinione pubblica spingesse per una sistemazione razionale del quadro politico, ma ciò richiederebbe una fiducia nelle prospettive della politica e nella qualità delle sue classi dirigenti, fiducia che oggi se non vogliamo dire che sia completamente assente è realistico ammettere che sia ridotta al lumicino.


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