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“Why not?”, murales di Harry Greb a Roma, dipinto dopo la strage di Cutro

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BENE, ma non benissimo. Il governo in trasferta a Cutro ha cercato ieri di raddrizzare il senso di inadeguatezza, impreparazione e irresponsabilità emerso dalla gestione del naufragio e dalla strage di più di 70 migranti di fronte alle coste calabresi. Ma non pare ci sia ancora riuscito. Il mancato soccorso in mare che ha trasformato in tragedia la fine della fuga di decine di disperati provenienti dal vicino oriente rappresenta per l’Italia una figuraccia globale. Aggravata dalle parole di autodifesa del ministro Matteo Piantedosi, arroganti e prive di pietà a ridosso dell’accaduto, evanescenti e pilatesche nelle comunicazioni alle camere. Con Matteo Salvini e i suoi che per giorni hanno continuato a fare i gradassi rilanciando l’inasprimento dei decreti sicurezza di “gialloverde” memoria, mostrando scarsa contezza del danno di immagine internazionale che il nostro paese ha subito da questa vicenda. Con il presidente della Repubblica che, cercando di mettere una pezza in prima persona per rammendare la credibilità delle istituzioni, ha mostrato la sua silenziosa sagoma di fronte alle salme in un atto di cordoglio, quasi chiedendo perdono. Infine, Giorgia Meloni: fin dalle prime ore della tragedia la presidente del Consiglio ha evitato di intervenire direttamente per commentare la vicenda, prendendo di fatto le distanze dal suo ministro che non poteva esplicitamente censurare – o, peggio, silurare – per non turbare gli equilibri della maggioranza e il rapporto con la Lega. Da qui l’idea di una iniziativa simbolica forte: spostare la riunione del Consiglio dei ministri a Cutro, per assumere decisioni urgenti in tema di gestione dei flussi di migranti. Gesto apprezzabile, così come la manifestazione di impegno, ma per ora la montagna sembra aver partorito un topolino.

Tra le decisioni dell’esecutivo, alcune riguardano i flussi, con una maggiore disponibilità all’ingresso regolare di personale specializzate che le aziende italiane possano contrattualizzare. Ma bisogna essere consapevoli che la mancanza di lavoratori è un capitolo diverso dalla gestione degli sbarchi. Anche se le quote preferenziali saranno assegnate ai lavoratori provenienti da paesi impegnati a promuovere tra i propri cittadini campagne di informazione sui rischi derivanti dai traffici irregolari di migranti. Allo stesso tempo, il governo cerca di usare il pugno duro nei confronti dei trafficanti aumentando durezza e lunghezza delle pene per quegli scafisti che causano la morte di una o più persone durante una traversata. La nuova disciplina prevede poi un aumento della sorveglianza marittima con l’uso sempre più massiccio della forza militare a difesa dei confini nazionali, uno dei pallini della retorica della destra al governo. Tuttavia, si tratta ancora di palliativi: mostrare i muscoli e digrignare i denti non sarà sufficiente né a bloccare il desiderio di libertà e di benessere di migliaia di disperati in fuga dalla miseria, dall’oppressione e dalla morte, né a impedirne il trasporto illegale. Tra le nuove misure, il Consiglio dei ministri prevede, infine, il potenziamento delle strutture per i rimpatri dei clandestini e maggiore severità per impedire la speculazione nella gestione dei migranti da parte delle cooperative.

Pensare però che tutto ciò possa bastare per garantire l’efficacia del governo dell’immigrazione da parte delle nostre istituzioni significa buttare fumo negli occhi. La realtà è radicalmente diversa e chiede all’Italia di cambiare atteggiamento e visione rispetto a un fenomeno enorme come quello migratorio, che nei prossimi anni, alla luce di un quadro internazionale sempre più incerto a causa di guerre, cambiamenti climatici e povertà, è destinato a crescere. Fin dall’inizio del suo mandato Giorgia Meloni ha parlato di difesa dei confini e sicurezza, di tutela dell’identità e degli interessi nazionali. Si tratta di temi giustamente rilevanti dal punto di vista di un governo di destra (e, possiamo dire, lo sarebbero anche per un governo di sinistra). Ma c’è da chiedersi se l’interpretazione di questi concetti sia adeguata al tempo che viviamo e non piuttosto all’idea, ormai superata dalla storia, di un’Italietta provinciale che vorrebbe chiudersi nel suo piccolo giardino, mentre intorno a lei tutto cambia. Basti pensare allo stesso concetto di identità nazionale. Nel corso dell’intervento tenuto martedì al senato, Matteo Renzi ha giustamente ricordato che storicamente, per l’Italia, l’identità nazionale non si afferma attraverso il respingimento dei migranti e l’innalzamento dei muri. “L’identità nazionale italiana – da Virgilio, che immagina la fondazione di Roma attraverso un popolo di naufraghi, fino a quel pescatore di Cutro al quale dovremmo tutti inchinarci, perché non ha dormito la notte per andare a recuperare i corpicini dei piccoli naufraghi – è quella di chi salva le vite, non di chi difende i respingimenti”, ha spiegato il leader di Italia Viva. Né si può dimenticare che le profonde radici cristiane del nostro paese – peraltro rivendicate a più riprese proprio da Meloni – hanno trasmesso al nostro popolo un forte spirito di accoglienza e di fratellanza. In secondo luogo, la destra dovrebbe svolgere un ragionamento sul ruolo stesso dell’Italia nel mondo.

Da mesi Giorgia Meloni insiste sul cosiddetto Piano Mattei, ovvero sul nuovo protagonismo dell’Italia non solo nella ricerca e diversificazione di forniture energetiche ma anche nella partnership con quei paesi del “Mediterraneo allargato” che va oltre i confini del mondo arabo che si affaccia nel Mare Nostrum spingendosi fino all’Africa Sub sahariana e al Golfo Persico. Una prospettiva feconda che fa dell’Italia – e del Mezzogiorno d’Italia in particolare, cioè proprio quella parte del paese primariamente esposta all’arrivo dei migranti – la punta di lancia dell’Europa nel Sud del mondo. Se questo, secondo la premier di destra al governo, è il ruolo dell’Italia sul piano geoeconomico, non si capisce per quale motivo il nostro paese non debba svolgere il medesimo ruolo attivo – non solo difensivo – sul piano geopolitico, là dove si dovrebbe cominciare a ricollocare il tema dell’immigrazione. Né si può dimenticare la responsabilità specifica dell’Europa – Italia compresa – nella cattiva gestione di una serie di crisi internazionali, dalla Libia all’Afghanistan, che oggi ci presenta il conto sul versante del fenomeno migratorio. Chi fugge dall’Afghanistan attraverso la Turchia – che, per inciso, è un paese della Nato – fugge anche perché probabilmente l’occidente europeo non ha saputo gestire quella situazione: oggi quelle famiglie ripiombate nell’oppressione e quelle donne che hanno perso la loro libertà e dignità pensano di ritrovarle soltanto nella fuga e nel sogno occidentale.

Ecco che dal chiaro postulato euroatlantico dichiarato fin da subito dal governo Meloni derivano almeno due corollari. Primo: l’impegno italiano a costruire accordi sensati in Europa in direzione contraria a quei paesi – prima di tutto l’Ungheria tanto cara a Meloni – che concepiscono l’Europa come una fortezza etnica inespugnabile. Secondo: l’urgenza di modellare le politiche di difesa e di sicurezza dell’Unione europea nella chiave della potenza regionale capace di governare in modo comune un fenomeno globale attraverso puntuali accordi con i paesi dove bruciano i focolai delle crisi. Senza questo coraggio e questa visione la gestione dell’immigrazione continuerà ad essere demandata ai trafficanti di esseri umani.


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