Emmanuel Macron e Mario Draghi
5 minuti per la letturaNé alleanza né coabitazione. Emmanuel Macron, intontito dal manrovescio elettorale di domenica, dovrà barcamenarsi tra i marosi della destabilizzazione politica, giacché i 245 (su 577) seggi ottenuti da Ensemble gli consentono di andare avanti solo con la maggioranza relativa nell’esercizio del mandato presidenziale ricevuto appena due mesi fa.
È protetto, in un certo senso, da un sistema istituzionale che consente la sfiducia politica, che se pure ha fatto strada tra il polo di destra equello di sinistra, è però impossibilitata a farsi maggioranza attraverso la sommatoria dei voti di Jean-Luc Mélenchon e di Marin Le Pen. Questi possono, grazie ai seggi conquistati, cantare vittoria, ma con la raucedine da freddo del frigorifero in cui i loro voti sono destinati.
Da parte sua, Macron, dovrà negoziare e recuperare con le ali più moderate (i repubblicani su un versante o i Verdi e i Socialisti sull’altro), l’equilibrio politico che forse avrebbe potuto ricercare se non prima del voto presidenziale, almeno nei due mesi intercorsi con quello parlamentare. Se dovesse confermarsi una analisi corretta, non sarebbe questa la lezione politica che attraversa le Alpi?
L’Italia i due mesi alle elezioni politiche, e magari qualcuno in più, li ha davanti. Alle spalle ha però una crisi del sistema politico-istituzionale che sembra avere molti punti di contatto con l’ingovernabilità ora implosa nel sistema francese. Da noi, gli opposti governi politici – quello gialloverde e quello giallorosso, addirittura con lo stesso presidente del Consiglio – consentiti dall’ambiguità dell’ultima tornata elettorale sono finiti alle corde e hanno dovuto cedere il passo al governo tecnico di Mario Draghi. Ma l’ingovernabilità resta dietro l’angolo.
Al netto delle differenze, tutt’altro che formali (se a Draghi non è stato riconosciuta la legittimazione politica per concorrere all’elezione parlamentare del Capo dello Stato, a Macron non è concesso utilizzare per il governo lo strumento istituzionale dell’unità nazionale), verrebbe quasi da immaginare Macron fare come Draghi. Ma, a questo punto, è perlomeno azzardato chiedere a Draghi di fare in Italia come Macron.
Sono altre le risposte politiche da ricercare. Senza sacrificare occasioni preziose, come è accaduto nello stesso giorno del primo turno delle elezioni politiche francesi, quando il mancato raggiungimento del quorum nei 5 referendum sulla giustizia (è andato alle urne il 20% circa degli aventi diritto, un vero e proprio record negativo), ha segnalato l’abbandono delle forze politiche di uno strumento della democrazia diretta che in altre fasi – basti pensare alle battaglie per il divorzio e l’aborto – ha consentito vere e proprie svolte di costume, sociali se non propriamente politiche. Senza nemmeno avere l’ardire di un Bettino Craxi quando, nel 1991, in nome della “grande riforma” presidenzialista, invitò gli elettori ad “andare al mare”, salvo poi ritrovarsi con il 62,5% di votanti al referendum sulle preferenze elettorali.
Questa volta un po’ tutte le forze politiche – dello schieramento destinato a costituire la nuova maggioranza o, democraticamente, andare all’opposizione a seguito dell’ormai prossima scadenza elettorale politica – sono sembrate affidare al non detto l’interesse che gli elettori andassero al mare per proprio conto, senza mettere in campo alcuna capacità di coesione, programmatica se proprio non riformatrice. Quasi a non voler essere disturbati nelle inconcludenti manovre politiche, come quelle che hanno poi visto il centrodestra non recuperare nemmeno un apparentamento amministrativo in quel di Verona, e i Cinquestelle mettere all’indice il proprio ministro degli Esteri colpevole di avere le stesse posizioni del premier – e, perché non dirlo, del Pd – sulle decisioni da assumere nel prossimo Consiglio europeo sul doveroso sostegno all’Ucraina.
Sulla giustizia una pezza è stata posta dal Parlamento. Dopo. E il premier ha potuto non usare la fiducia come stampella al claudicante compromesso sulla riforma Cartabia. Altrettanto accadrà, se mai ci si dovesse arrivare, sulla riforma elettorale. Qualcosa sembra dire l’accurata indagine dell’Istituto Cattaneo sull’offerta politica alle amministrative in corso (con i ballottaggi domenica) di un ipotetico “nuovo bipolarismo”, tra un centrodestra che veda esplicitamente alleati FdI e Lega e un centrosinistra strutturato con il Pd e il M5s, che non avrebbe attecchito “in almeno un comune su quattro, in quanto una, l’altra o entrambe le coppie dei principali partiti sono esplicitamente in contrasto tra loro”. Possono spuntare offerte politiche inedite rispetto a quelle fin qui conosciute, magari puntando su un’altra partita, quella sull’Europa e la guerra ai confini orientali dell’Ucraina?
Bene che vada, tra meno di un anno bisognerà votare per un Parlamento con un terzo di componenti in meno. Come, con il maggioritario o il proporzionale? Si rischia di non farne nulla, prima, giacché non manca chi ritiene fatica sprecata rimettere mano all’ibrido attuale che assomma maggioritario e proporzionale, con i difetti dell’uno e dell’altro, tanto da saltare gli schieramenti e contrattare abbozzi di governo in proprio. Ma, per quanto questa ambivalenza possa essere considerata più conveniente di faticosi processi di scomposizione e ricomposizione politica, il caso francese avverte che non sempre si può rimediare. Dopo.
All’indomani della rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale, aveva fatto discutere la stizzita battuta – “va bene?” – con cui Mario Draghi aveva respinto le lusinghe tentatrici di chi lo avrebbe voluto, e forse lo vorrebbe ancora, a capo di un aggregato centrista, un po’ di qua e un po’ di là – alle elezioni politiche prossime venture. Facile, comodo, ma incongruo in una fase politica dove, inevitabilmente, l’azione del governo incrocia i particolarismi elettorali. Le discese e le risalite ardite, pronosticate da tutti i sondaggi, non sembrano andare molto oltre il 20%, sia tra le forze politiche di centrodestra sia tra quelle del campo – largo o stretto che sia – del centrosinistra, non è davvero cifra da partito egemone, men che meno a vocazione maggioritaria, come quelli che avrebbero dovuto forzare l’evoluzione del bipolarismo italiano.
Il sistema politico è sembrato muoversi con il passo del gambero, all’indietro, tra la democrazia bloccata di vecchia memoria e il populismo, senza riuscire a individuare uno sbocco coerentemente riformatore alla tormentata transizione istituzionale. È bastato che l’emergenza della pandemia fosse soppiantata dall’emergenza della guerra per veder riemergere ed implodere le tensioni che la convenienza politica relega in una continuità impotente. Per questo occorre fare i conti nei tempi dovuti. Con coraggio.
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