Giuseppe Conte e Luigi Di Maio
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C’era una volta il M5s. Un partito stalinista-populista fatto e finito. Chi sgarrava veniva semplicemente fatto fuori. L’ultimo in ordine di tempo era stato Vito Petrocelli, già presidente della Commissione esteri del Senato, espulso in primavera per via della sua posizione filorussa e antiatlantista. Che, tuttavia, era perfettamente coerente con il grillismo delle origini. Oggi la minaccia di espulsione incombe addirittura su un ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ma per il motivo esattamente opposto: troppo atlantista.
I DUE ARGOMENTI PER L’ATTACCO A DI MAIO
Dall’inizio delle legislatura a oggi, in verità, è lunga la lista di parlamentari espulsi. In alcuni casi sono stati inflitti provvedimenti formali. I più fortunati si sono espulsi da soli, nel senso che hanno dato all’addio la dignità delle dimissioni o della scissione. Tali e tanti, alla fine, i cambi di casacca e i passaggi di gruppo, cercati o subiti, che a elencarli viene un po’ di mal di mare.
E così, il partito che nel 2018 conquista il primato in Parlamento nel nome della pulizia morale e della purezza ideologica è diventato già, a un anno dalla scadenza della legislatura, il partito più trasformista della storia della Repubblica, con acrobazie politiche degne di uno spettacolo circense.
L’ultimo spettacolo in ordine di tempo va in onda in queste ore. Il soggetto della purga è Di Maio, reo di aver assunto ormai un profilo politico troppo autonomo rispetto al politburo del partito dominato – si fa per dire – da Conte e Grillo. Per far fuori l’avversario, gli argomenti sono due. Il primo è politico. Luigi Di Maio è criticato per aver stigmatizzato il no del Movimento alla fornitura di nuove armi all’Ucraina. Ormai da settimane Giuseppe Conte, dietro suggerimento di Rocco Casalino, gioca un ruolo di lotta e di governo, dando voce al desiderio degli italiani di «essere lasciati in pace»: meglio usare i soldi dello Stato per distribuire un po’ di sussidi per fronteggiare l’aumento dei prezzi piuttosto che regalarli all’Ucraina in forma di aiuti militari che prolungherebbero i disagi provocati dall’economia di guerra.
Il secondo argomento è formalistico. Una delle norme auree del movimento è il tetto ai mandati parlamentari: possono essere soltanto due. Rilanciare il tema adesso è un modo per dire a Di Maio, che è già al secondo giro di giostra, che il suo tempo in Parlamento è finito. Il tema formalistico, però, mette in fibrillazione tutti, mica solo Di Maio: tra taglio dei parlamentari e tetto del secondo mandato, infatti, almeno i due terzi degli attuali parlamentari – già falcidiati da dimissioni, espulsioni e scissioni – non hanno alcuna speranza di rimettere piede a Palazzo Madama e a Palazzo Montecitorio. A meno che Conte, che farà le liste, non decida di costruire un complicato e improbabile sistema di esoneri e concessioni ad hoc.
LA TRASFORMAZIONE LUIGINO IN “OSSO DURO”
Vista la totale inconsistenza politica dell’avvocato, non è strano che la partita si giochi oggi su questo mix di tatticismo parlamentare antigovernativo e di formalismo giuridico statutario. E d’altra parte, quale altra fine potevamo aspettarci per un movimento privo di identità politica ma buono per tutti, qualunquista e confusionario sul piano delle idee, con una classe dirigente selezionata tramite casting amatoriali online?
A suo modo, l’operazione di Giuseppe Conte poteva apparire raffinata. Obliquo per vocazione, l’ex premier ha cercato finora di creare le condizioni necessarie e sufficienti per condurre Luigi Di Maio a fare per primo un passo indietro dal Movimento, evitando l’onta di essere cacciato di casa come un Gianfranco Fini qualsiasi.
Ma l’operazione stavolta non può funzionare. Il ministro degli Esteri è diventato un osso molto più duro di quanto non appaia. Di Maio ha ormai abbandonato la fase “fasciocomunista” nella quale festeggiava nelle piazze per il taglio dei vitalizi dei parlamentari o furoreggiava dai balconi raccontando l’abolizione della povertà.
Viceversa, ha imparato a costruire un profilo politico che lo avvicina al prototipo del democristiano campano del ventunesimo secolo: a soli 36 anni può già raccontare di essere stato il più giovane vicepresidente della Camera nella storia della repubblica, ministro dello sviluppo Economico, ministro del Lavoro, vicepremier e, adesso, per non farsi mancare nulla, ministro degli Esteri.
Oltre al curriculum baciato dalla fortuna, grazie al governo Draghi, Di Maio ha ripulito l’impronta populista delle origini. Diventando non solo uomo delle istituzioni, ma soprattutto uno dei custodi del posizionamento euroatlantico dell’Italia, sulla scia del premier e del presidente della Repubblica. Questa nuova fisionomia lo rende ormai troppo grande e ingombrante per un movimento ridotto in polvere e macerie e destinato alla probabile estinzione.
Chi fantastica l’espulsione del ministro degli Esteri dal M5s dimostra di non capire che, se ciò avvenisse davvero, le ripercussioni più tragiche ricadrebbero tutte sui grillini. Per non parlare del miraggio – completamente velleitario visto il clima di guerra – di spingere Di Maio a lasciare la Farnesina. Del tutto impossibile finché sarà coperto dal manto protettivo di Mario Draghi. Ecco perché le quattro ore di riunione del Consiglio nazionale dei Cinquestelle, tra la sera della domenica e la notte di lunedì, non potevano portare a nulla di concreto.
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Dopo due giorni di attacchi concentrici contro la vittima designata, durante i quali i fedelissimi del capo politico sono stati spediti sui media per spiegare le ragioni dell’espulsione, Conte si è trovato costretto a indossare i panni del mediatore tra se stesso e il ministro degli Esteri. Ed ecco perché Di Maio, per ora, non ha bisogno di fare sfracelli. Il tempo gioca dalla sua parte.
Mentre il movimento continua il suo declino rovinoso senza nemmeno tematizzarlo – nessuna riflessione interna sul patatrac delle elezioni amministrative – la componente che fa capo al ministro degli Esteri potrebbe allargare il consenso e provocare il terremoto definitivo: sono circa 60 i parlamentari pronti a seguire Di Maio in mare aperto. Senza contare la trama di relazioni che l’ex bibitaro ha tessuto in questi mesi con pezzi dell’establishment, compresi sindaci e governatori.
Oggi al Senato, intanto, si gioca l’ennesimo braccio di ferro tra Conte e Draghi proprio sulla risoluzione sull’Ucraina che è il fulcro del match con Di Maio. Vista la crisi profonda del M5s, però, la sensazione è che sarà, ancora una volta, molto rumore per nulla.
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