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La bassa affluenza ai seggi, ben al di sotto del cinquanta più uno per cento del corpo elettorale, necessario perché i referendum possano avere effetto, non “seppellisce” l’istituto dei referendum abrogativi. Si è avuto uno degli esiti possibili della consultazione popolare ed è vano trarre da questo effetto una valutazione implicita di volontà sui quesiti referendari.
Anche se vi è disaffezione dal voto, riscontrabile già nelle diverse tornate elettorali, è bene che siano salvaguardate le potenzialità dei referendum abrogativi, uno dei pochi strumenti con i quali si esercita direttamente la sovranità popolare, di grande importanza quando siano in gioco questioni di essenziale rilievo, come tali apprezzate dall’opinione pubblica, ed uno scudo di ultima istanza, che può essere attivato nei confronti di sempre possibili leggi che manifestino derive autoritarie.
La esperienza dei referendum “a ritaglio”, diretti a cancellare dalla legge singole parole, frasi o parti di frase, costituisce una torsione del referendum abrogativo, tanto che per comprenderne l’oggetto si è dovuto prevedere che l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione dia a ciascun referendum un titolo che ne rispecchi il significato oggettivo, che qualche volta non coincide con l’intenzione dei proponenti.
Il rischio è che il referendum si trasformi in una specie di sondaggio generale certificato
Il rischio è che il referendum si trasformi in una consultazione che i proponenti intendono vada al di là della abrogazione, una specie di sondaggio generale certificato che costituisca un indirizzo per il Parlamento, un surrogato dei referendum propositivi o di indirizzo che la costituzione non prevede. I cinque referendum che sono stati proposti “a grappolo” sulla giustizia riguardano questioni tutto sommato marginali. Ad alcune il Parlamento sta già ponendo in parte rimedio con la riforma Cartabia.
Nel complesso i quesiti promettevano più di quanto non potessero dare, con la pretesa tutta politica, quindi controvertibile e quindi priva di rilievo giuridico, di costituire un indirizzo per il legislatore. All’esito della tornata referendaria i problemi della efficienza della giustizia e della credibilità della magistratura restano aperti, e lo sarebbero stati anche se l’esito fosse stato diverso. Non si può affermare che la mancata abrogazione consolidi le norme esistenti. Sarebbe una appropriazione indebita del non voto.
Sarebbe saggio impegnarsi in un’analisi per progettare una riforma organica
Anziché attardarsi ad individuare sconfitti o vincitori della competizione referendaria, sarebbe saggio impegnarsi in una analisi non ideologica dei mali presenti, per progettare una riforma organica che riguardi la giurisdizione in un’ottica di medio e lungo periodo, anche oltre la riforma Cartabia, contrassegnata dall’urgenze e in corso di opportuna approvazione parlamentare.
Dovrebbero essere oggetto di un dibattito pubblico proposte complessive ed organiche che superino i rattoppi con i quali si è proceduto sino ad ora, si continua a procedere, e che sarebbero stati anche l’effetto di una abrogazione referendaria. Una conferenza nazionale sulla giustizia potrebbe essere occasione per la elaborazione e presentazione di nuove idee orientate ad un convergente impegno per la soluzione dei problemi e non per essere tribuna di un permanente conflitto.
La partecipazione di rappresentanti di tutte le componenti professionali che operano nel sistema giudiziario, unitamente alle competenze accademiche, giuridiche e di scienza e tecnica dell’organizzazione coinvolte, potrebbero concorrere a fornire soluzioni ancorate alla concretezza dei problemi.
Anche senza una simile iniziativa, le forze politiche hanno la opportunità, forse anche il dovere, di impegnarsi a definire ciascuna la propria visione trasfusa in un progetto organico di riforma della giustizia, che potrà essere valutato, appoggiato o respinto dai cittadini nelle ormai prossime elezioni politiche.
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