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La disoccupazione giovanile sta calando rapidamente ed è in vista dei minimi toccati subito prima (2007) delle “grandi crisi”
Nel commento del 1° agosto alla “marcia indietro” del Pil italiano nel secondo trimestre avevamo posto due domande: quali sono le prospettive per il resto dell’anno? E, più importante, questo inciampo smentisce la narrativa che vede l’economia italiana strutturalmente installata su un più saldo sentiero di crescita?
Alla prima domanda avevamo risposto con un cauto ottimismo, basato su indicatori di fiducia (il superindice della Commissione Ue) che per luglio davano letture positive (e nettamente migliori di quelle medie dell’Eurozona). C’è qualcosa da aggiungere?
GLI INDICATORI
Gli indici Pmi (manifattura e servizi) confermano un rallentamento dell’economia mondiale che esala profumo di recessione. Anche se questa non è scontata, non c’è dubbio che l’Italia – un’economia media e aperta – non può sfuggire a una debolezza internazionale che, proprio perché corale, è più della somma delle parti.
Alla seconda domanda avevamo risposto, anche qui, con guardingo ottimismo. Avevamo osservato che, come una ciliegia tira l’altra, crescita chiama crescita: l’incerto livello del Pil potenziale diventa meno incerto se l’economia cresce e se la crescita è virtuosa, con investimenti che aumentano più delle altre componenti della domanda. Ed è questo che è successo da due anni in qua.
Dietro questa virtù c’è la realtà di un apparato produttivo che è cambiato e sta cambiando: le crisi degli ultimi lustri, dalla Grande recessione (2007-2009) prima, alla crisi da debiti sovrani poi (2011-2012), alla pandemia dopo ancora (2020-2021) e alla guerra in Ucraina infine (2022 a oggi e a domani), lungi dal mettere in ginocchio le imprese italiane, hanno indotto forti ondate d’innovazione di prodotti e processi. Innovazioni che chiamano investimenti e i cui risultati si vedono nella performance dell’export.
Certamente, a fronteggiare le crisi ha contributo anche una meritoria politica espansiva del bilancio pubblico, con le strettoie del Patto di stabilità messe a tacere. Anche se queste strettoie torneranno a mordere (pur se con fauci meno azzannanti di prima), l’economia su cui si eserciterà il freno di una politica di bilancio non più permissiva è in condizioni migliori di prima.
LA LEVA DEL LAVORO
C’è poi un’altra condizione strutturale che favorisce l’economia italiana, ed è il miglior funzionamento del mercato del lavoro. Le riforme strutturali, si sa, sono difficili da attuare politicamente, perché i risultati si vedono dopo un tempo che va oltre gli orizzonti elettorali dei governi, di destra o sinistra che siano. Ma, talvolta, si fanno lo stesso, e oggi cogliamo i frutti di quelle riforme strutturali, da quelle di Treu a quelle del Jobs Act, fatte negli anni passati.
Un grafico mostra, nelle serie storiche dell’Istat che partono dal 2004, come sia andato evolvendo, nei due ultimi decenni, il tasso di occupazione in Italia (numero di occupati in percentuale della popolazione in età di lavoro). Crollato con la Grande recessione, ulteriormente schiacciato dalla crisi del 2011-2012, ha poi iniziato una risalita, bruscamente interrotta negli anni del Covid.
Da allora, però, è scattato verso l’alto, riguadagnando i livelli impliciti nella precedente tendenza crescente. E, oltre alla quantità, è migliorata anche la qualità, con una più alta quota di contratti a tempo indeterminato. Segni, questi, che indicano come i fattori di fondo continuino a operare. Da una parte, migliore incontro fra domanda e offerta di lavoro, con ridotti disallineamenti fra ciò che la domanda chiede e ciò che il sistema educativo fornisce. Dall’altra parte, fattori culturali che spingono le donne a entrare nel mercato del lavoro. E, dall’altra parte ancora, la crescente importanza dei servizi nel valore aggiunto del Pil, e i servizi hanno una più alta intensità di lavoro.
Si dice spesso che abbiamo un debito, come società, verso i giovani, che fanno fatica a costruirsi un futuro, a trovare alloggi (affitti cari) e a cui consegniamo un ambiente degradato, con ulteriori degradazioni nella pipeline della storia climatica del pianeta.
LE PROSPETTIVE DEI GIOVANI
Il che è vero, ma almeno su un punto possiamo vedere un miglioramento nella condizione giovanile. Il tasso di disoccupazione di chi è fra i 15 e i 24 anni sta calando rapidamente (vedi grafico), ed è in vista dei minimi toccati subito prima (2007) dei quattro “cigni neri” che hanno rigato questo primo quarto del secolo. Il tasso di disoccupazione giovanile, che ancora nel 2014 superava, e non di poco, il 40%, oggi è di poco superiore al 20%. Ha aiutato molto, in questo contesto, anche il crescente grado di istruzione di chi passa dalla scuola (università inclusa) al mercato del lavoro. Dato che sono considerati “disoccupati”, in quella fascia di età, solo coloro che non studiano, un aumento di coloro che studiano riduce il numero dei giovani disoccupati.
Senza dimenticare che tutte le ricerche mostrano come un più alto grado di istruzione si associ a più alte probabilità di trovare lavoro, e, naturalmente, anche a migliori redditi futuri.
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