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Le nuove generazioni vivono le condizioni di incertezza del mondo lavorativo e queste caratterizzano e vincolano le scelte di vita ed il futuro dei giovani. La possibilità di fare piani a medio e lungo termine diventa una vera sfida perché diminuiscono sempre più le sicurezze a causa della trasformazione della società, dei contratti lavorativi occasionali e determinati e delle tante competenze richieste.

Diversificare è la parola d’ordine che è introdotta nelle loro vite. Mutare giornalmente, stagionalmente ed adattarsi a differenti situazioni lavorative, progettuali, sociali consente, quantomeno, di trovare più occasioni di sopravvivenza. Queste scelte però non sempre sono in linea con gli originali indirizzi di studio e con le carriere professionali che tanti giovani si aspetterebbero una volta completati i percorsi accademici, scolastici e professionalizzanti. La complessità degli scenari professionali, oggi, non consente a un titolo di studio di essere necessariamente corrispondente a una figura professionale.

Il fatidico interrogativo “Chi sarò da grande?” purtroppo, non trova più una solida risposta. Per affrontare le condizioni di maggiore precarietà è richiesto loro una esperienza quotidiana basata su una più alta flessibilità. Altro dato, viene meno l’apprendimento sul campo perché i giovani sono invitati ad aumentare il loro livello di istruzione e acquisizione delle competenze personali e professionali di stampo accademico. Per l’investimento a lungo termine nella formazione c’è però un costo da mettere in conto: una volta concluso il periodo di apprendimento – solitamente sono richiesti dai 12 mesi ai 4 anni – la scelta può risultare non più corrispondente alla richiesta professionale del mondo del lavoro oppure può accadere di intraprendere un percorso formativo con l’idea di esercitare la professione ma nella realtà finire per allontanarsi dalla consueta e/o stereotipata pratica professionale ad essa associata.

Nell’idea dei ragazzi il concetto di lavoro rimane pertanto interdetto tra aspirazioni individuali e speranze realistiche. Di fondo manca anche la chiarezza con cui descrivere le realtà sociali e lavorative. Mancano, ai giovani, confronti e riferimenti capaci di rendere semplificate ed applicabili le convinzioni, le ambizioni e le aspettative maturate nel corso della formazione. È questo gap tra le domande “cosa studio?” e “come faccio ad applicare ciò che ho studiato” che rende i giovani spaesati e sempre più indirizzati a scegliere più strade lavorative, differenti tra di loro, con l’unico scopo di racimolare un guadagno economico. “Job Hopping” è la tendenza dei millennials – fascia 25-36 – a cambiare con frequenza il lavoro per aumentare le possibilità di avere benefit più vantaggiosi. Interrompere la routine sembra avere un effetto positivo perché consente di avere più successo: le aziende premiano la flessibilità e l’essere multitasking.

Quest’ultima è tra le soft skills maggiormente richieste in ambito lavorativo proprio per l’evoluzione del contesto sociale e culturale ma anche perché riflette quelle capacità innate che consentono di svolgere più attività contemporaneamente. Giovani che mostrano tale abilità sono premiati perché sanno lavorare e portare a termine più progetti nonché, hanno capacità di ricoprire più mansioni. Diversificare, poi, il lavoro in settori professionali differenti consente di essere appagati da ogni punto di vista perché nella distribuzione delle attività si riesce ad implementare e svolgere lavori complementari che sono più associati alla sfera delle passioni. Si trova il giusto equilibrio, quindi, tra ciò per cui si è studiato e ciò che si avrebbe voluto essere da grandi.


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