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L’ITALIA, nel 2019, sigla il Memorandum con la Cina per l’adesione al progetto “Kolossal” della “Via della Seta”. Non solo. Quella italiana è l’unica firma dei G7 presente sull’accordo. L’obiettivo è chiaro: far crescere l’export italiano in Cina in misura vigorosa rispetto a Paesi come Francia e Germania che realizzavano nel mercato cinese un fatturato da far impallidire quello italiano (nel 2018 esportavamo 13,5 miliardi di euro contro i 95 della Germania).

L’ERRORE DI CALCOLO DELL’ITALIA SULLA VIA DELLA SETA

Di per sé, la decisione – presa dal governo Gentiloni e confermata dal governo Conte – di aderire alla Bri, non è peregrina. Potremmo chiamarla realpolitik. Se fosse, naturalmente, tutto andato secondo le aspettative. Non è successo. Nel 2023 l’export dell’Italia verso la via della Seta è di soli 17 miliardi di euro. Un valore decisamente lontano dall’obiettivo di incremento delle esportazioni di 20 miliardi dichiarato al momento della sigla del memorandum. Cosa è successo? È successo che, forse, non abbiamo compreso molto bene le modalità con cui abbiamo sottoscritto il memorandum. Non siamo stati in grado di negoziare reali condizioni di reciprocità di accesso al mercato cinese da parte dei nostri prodotti. Nella sostanza, abbiamo sottoscritto un accordo che riconosceva a Pechino evidenti vantaggi di immagine, ma non siamo riusciti a ottenere le necessarie contropartite (da inserire per iscritto nell’accordo).

A quel punto, chiunque conosca i cinesi sa perfettamente che sarebbe stato quasi impossibile – e così è stato – portare a casa risultati apprezzabili. Nel frattempo il quadro geopolitico è radicalmente cambiato. La Cina, da essere Paese corteggiato dall’Unione europea e dagli Stati membri per via delle opportunità di mercato, è diventata un partner meno apprezzato. È arrivato il Covid. Poi l’aggressione russa in Ucraina. E l’atteggiamento del Partito comunista su entrambi i fronti non ha riscosso grande consenso sul piano internazionale. Nel quadro attuale, cioè quello di una Cina “chiusa e lontana”, la decisione italiana di uscire dall’accordo sottoscritto nel 2019 non sorprende di certo. Non poteva essere altrimenti. Il dossier nelle mani del governo di Giorgia Meloni scottava sia in termini di politica interna (il mancato rinnovo era un punto del programma elettorale), sia in termini di relazioni internazionali (gli accordi attualmente in essere nel Patto Atlantico rendevano infatti indifendibile la posizione).

L’USCITA E IL TIMING DELL’ITALIA SONO STATI PERFETTI

Non solo: i benefici economici paventati non si sono realizzati. Contenuti dell’annuncio e scelta del timing sono stati perfetti. Sul primo versante, infatti, è stato promesso ai cinesi l’avvio di una partnership strategica: a rappresentare il riconoscimento da parte italiana di uno status privilegiato della Cina. Questo permette ai cinesi di salvare la faccia. In termini di timing, l’annuncio avviene 24 ore prima del vertice (a Pechino) tra Ue e Cina, che molto probabilmente avrà toni duri. Nel 2019 la Cina era considerata dagli europei come un partner strategico. Adesso è sia partner che rivale sistemico. In altre parole, la decisione italiana si stempera e diluisce nel quadro della (nuova) prospettiva europea. È pertanto molto probabile che le ripercussioni sul Made in Italy siano davvero limitate. Anzi, occorre trarre da questa occasione lo spunto per riuscire a rilanciare il nostro export. Il potenziale del mercato cinese è enorme, noi esportiamo (17 miliardi) in quel di Pechino (paese da 1,4 miliardi di persone). Meno di quanto facciamo in Belgio (25 miliardi in un Paese che è grande quanto la Lombardia).

IL CAMBIO DI PASSO CHE SERVE ALL’ITALIA

Per realizzare questo obiettivo, serve un cambio di passo e di consapevolezza: la Cina deve essere conosciuta in profondità. Serve pertanto a Palazzo Chigi una task force che sia in grado di supportare la Presidenza nelle negoziazioni e nelle decisioni importanti da prendere nei confronti del Dragone. Si tratta della seconda economia del Pianeta, è molto diversa da noi in termini culturali e costituisce il primo mercato al mondo per numerose categorie merceologiche. Su questo palcoscenico, ovviamente, non c’è spazio per improvvisazioni o approssimazioni.


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