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Grande, forse troppa, è la confusione sotto il cielo della geopolitica. Il conflitto in Ucraina ha già da tempo deteriorato il quadro internazionale evidenziando una spaccatura sempre più evidente tra democrazie e autocrazie (Cina e Russia, in primis) e tra paesi occidentali e il cosiddetto Sud del Mondo (nella sostanza i paesi poveri che non hanno votato, a settembre 2022, a favore della mozione di condanna della Russia in sede Onu).
La recente esplosione della crisi medio-orientale tra Hamas e Israele apre nuovi ulteriori fronti, che rendono davvero incerto il futuro prossimo (e forse non solo). Sono in particolare almeno tre i fattori di complessità che questo improvviso rigurgito di violenza introduce.
Apre in primo luogo una nuova e ulteriore spaccatura all’interno del mondo arabo; a valle degli Accordi di Abramo la situazione in Medio-Oriente sembrava andare verso una maggiore stabilizzazione con Giordania e Egitto a beneficiare di un quadro di relazioni finalmente meno teso con Israele.
L’attacco di Hamas del 7 ottobre uscente ha invece determinato nuove spaccature: Bahrain e Emirati Arabi Uniti hanno immediatamente e senza indugio condannato Hamas; di converso il Qatar, nella sua veste di principale finanziatore del movimento, ha condannato Israele mentre Giordania e Egitto hanno palesato un atteggiamento più cauto barcamenandosi tra la necessità di gestire in sicurezza i confini con Israele e non provocare le suscettibilità delle rispettive popolazioni musulmane.
L’improvviso assalto di Hamas riporta in secondo luogo in evidenza il fatto che il disordine mondiale che stiamo vivendo è probabilmente molto più complesso di quello che pensavamo. In particolare, il fronte musulmano appare essere foriero di ulteriori ambizioni; certamente il risentimento che da tempo cova in questo brodo culturale può tradursi nell’ambizione di ulteriori Paesi, oltre Usa e Cina, a candidarsi ad ergersi come leader di coalizioni rappresentative di parti rilevanti del globo. L’Arabia Saudita appare essere un candidato naturale; l’emergente principe ereditario Mohammed Bin Salman ha già dato segnali evidenti a questo riguardo; più in generale, è tutt’altro che scontato l’allineamento del mondo musulmano alle posizioni di Pechino.
Il terzo ed ultimo fattore che si staglia all’orizzonte con grande nettezza è di natura economica e fa riferimento alla possibile impennata dei costi dell’energia. In una settimana, i costi del gas sono cresciuti del 50%; la garanzia di fornitura è ritornata in discussione: basti pensare che l’Algeria, primo fornitore di gas verso l’Europa, è stata il primo paese ad elogiare la scellerata operazione di Hamas in Israele meridionale. Gli stessi prezzi del petrolio potrebbe risentirne pesantemente in nome di una possibile stretta produttiva dei paesi OPEC.
Mala tempora currunt. È evidente tuttavia che il termostato che regolerà/determinerà l’intensità di questi effetti è rappresentato dalla durezza della reazione di Gerusalemme in quel di Gaza. In questo gli USA potranno avere un ruolo determinante; Washington pensava di potersi in parte disinteressare del Medio-oriente, per concentrarsi sull’Indo-Pacifico, i recenti accadimenti rendono impossibile questa prospettiva.
La Casa Bianca dovrà infatti gestire (sapientemente) obiettivi contrastanti: ovvero supportare il Governo di Israele nella risposta ad Hamas e, nel contempo, prevenire un allargamento del conflitto cercando di gestire le relazioni con i vari stati arabi.
Tutto questo con le elezioni presidenziali quasi alle porte; viviamo tempi interessanti, forse troppo.
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