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Giorgia Meloni a Kiev

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Giorgia Meloni arriva a Kiev in una settimana cruciale: è passato giusto un anno, infatti, da quando, il 24 febbraio  2022, l’esercito russo cominciava l’invasione dell’Ucraina. Un’invasione che, nei piani di Vladimir Putin, avrebbe dovuto  rovesciare in poche ore il governo legittimo di Kiev sostituendolo con un governo fantoccio filorusso sul modello della Bielorussia.

Per nostra fortuna, l’Ucraina resiste da un anno ed è diventata uno scudo contro le mire espansioniste del Cremlino verso quei Paesi europei che un tempo erano sotto l’influenza dell’Unione Sovietica o ne erano addirittura parte integrante.

DA MONACO ESCE UN OCCIDENTE COMPATTO

I paesi della Ue hanno compreso – finalmente – che l’aggressione della Russia non è soltanto una minaccia alla libertà dell’Ucraina ma alla sicurezza di tutto il vecchio continente. In realtà, soltanto l’indifferenza, l’illusione o la cecità dei governi europei ci fa dire, oggi, che il conflitto russo-ucraino compie un anno in questi giorni. È bene ricordare, infatti, che tutto cominciò ben nove anni fa, tra il 20 e il 27 febbraio del 2014, quando la Russia invase e annesse la Crimea come reazione alla rivoluzione democratica ucraina.

Così, dal febbraio 2014 al febbraio 2022, mentre l’Europa si voltava dall’altra parte confidando nella sua capacità di tenere buono l’orso russo con la forza delle intese commerciali, l’Ucraina fortificava la propria struttura statuale e si esercitava nella resistenza contro l’esercito di Mosca che nel frattempo aveva aperto il fronte del Donbass.

Ma dal febbraio 2022 sono cambiate due cose. Primo: la crescita della coscienza collettiva del popolo ucraino che ha scelto di difendere la propria libertà, piuttosto che consegnare il proprio Paese (e, di fatto, l’Europa intera) alla prepotenza dell’imperialismo russo. Secondo: la resipiscenza dei governi europei, finalmente consci che la posta in gioco non è soltanto la sorte dell’Ucraina ma la loro stessa sicurezza.

Perfino gli Stati Uniti d’America, da anni ripiegati su se stessi – fino alla vergognosa e traumatica ritirata dall’Afghanistan – si sono rilanciati come faro e guida del mondo libero contro le dittature e le autocrazie.

La Conferenza di Monaco sulla sicurezza, svoltasi nello scorso weekend, ha offerto una rappresentazione plastica di questa unità dei Paesi democratici contro la minaccia esistenziale portata dalla Russia (senza dimenticare la Cina) ai principi di pace, democrazia e libertà propri dell’universalismo giuridico dell’Occidente. Oggi è evidente che bisogna rifornire l’Ucraina affinché possa ricacciare oltreconfine le truppe russe. Sul punto, Meloni sembra avere fin qui idee molto chiare. E certamente le riproporrà nell’incontro di oggi con Zelensky.

LE OMBRE SULLA VISITA

Il suo viaggio, però, è già finito nel cono d’ombra della visita a sorpresa di ieri di Joe Biden, forte del fatto che gli Stati Uniti hanno assunto una posizione chiara di leadership delle democrazie occidentali fin dall’inizio del conflitto e che sono anche il principale fornitore di aiuti economici e militari al governo guidato da Volodymyr Zelensky.

La visita di Biden attesta definitivamente che Mosca può anche continuare a bombardare in maniera scomposta e irrazionale le città ucraine, ma deve rinunciare al sogno di esercitare una influenza sul Paese.

Come dimostrano la resistenza di questi 12 mesi e i discorsi di Zelensky al Congresso Usa e al Parlamento europeo, l’Ucraina si considera ormai parte integrante dell’Occidente europeo e non vuole più avere a che fare con la paranoia panrussa del leader del Cremlino che vorrebbe riportare indietro le lancette della storia.

Anche Giorgia Meloni guarda avanti. La presidente del Consiglio italiana vuole camminare nel solco tracciato dal suo predecessore Mario Draghi: l’appoggio “incondizionato” del governo italiano all’Ucraina non è in discussione. A dire il vero, Meloni è su questa posizione da sempre e lo aveva manifestato già da leader dell’opposizione.

Oggi, però, dalla sua scrivania di Palazzo Chigi, Meloni deve confrontarsi con due ostacoli. Prima di tutto quello interno. Come risulta da uno studio della Fondazione Bertelsmann, centro studi tedesco con sede in Vestfalia, gli italiani sono, tra i popoli europei, quelli che simpatizzano di meno con gli ucraini e che conservano una certa predisposizione verso Mosca. In più, fanno più fatica ad accettare sacrifici economici per sostenere la resistenza di Kiev.

Si spiegano meglio, così, le intemerate dei mesi scorsi di Salvini e Berlusconi, i due alleati di Meloni che però, sul fronte delle forniture di armi a Kiev, giocano una partita tutta loro, in contrasto con la premier. Meloni e Zelesnky si erano già incontrati a Bruxelles il 9 febbraio scorso in occasione del Consiglio europeo. Solo pochi minuti per confermare al leader ucraino l’impegno dell’Italia a inviare il sistema antiaereo e antimissile Samp-T, prodotto assieme ai francesi.

LE SPINE DI GIORGIA

Pochi giorni dopo, approfittando della visibilità delle elezioni regionali, Silvio Berlusconi criticò la premier italiana per aver incontrato il presidente ucraino. Insomma, il leader di Forza Italia continua a rappresentare una spina nel fianco di Meloni, ma, a giudicare dalle reazioni dei popolari europei, la sensazione è che, alla lunga, sarà Giorgia a uscire vincente su Silvio.

L’altro ostacolo è quello delle relazioni con i principali partner europei. Meloni ha sofferto l’esclusione dall’incontro tra Macron, Scholz e Zelensky e non ha mancato di farlo notare, forse con un eccesso di sprovvedutezza. L’episodio – che difficilmente  sarebbe avvenuto con Draghi – mostra che il giudizio nei confronti del suo passato sovranista e populista è ancora molto forte.

Sta pertanto a Meloni confermare, anche con questo viaggio a Kiev, il posizionamento dell’Italia tra i Paesi traino della  Ue sul fronte della sicurezza europea. Allo stesso modo, non basta il rapporto privilegiato con la Polonia. Tocca sempre a Meloni uno sforzo ulteriore per ristabilire, anche grazie all’impegno in Ucraina, una proficua collaborazione con Francia e Germania, che restano l’asse storico-politico dell’Unione europea.


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