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Le rivolte in Iran

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Le proteste dell’hijab dopo la morte della 22enne Mahsa Amini rischia mettere seriamente in crisi il regime degli Ayatollah in Iran

Dal 21 settembre si svolgono in Iran massicce manifestazioni di protesta, chiamate “proteste dell’hijab”, il velo islamico che è obbligatorio indossare, secondo le rigide norme sull’abbigliamento previste dal teocratico regime degli Ayatollah. Indossare propriamente il velo ha una grande importanza simbolica per il regime islamista, simile a quella che aveva il “Muro di Berlino” per i regimi comunisti, satelliti dell’URSS.

L’ondata di proteste ha tratto origine dall’uccisione di una ventiduenne iraniana di etnia curda, Mahsa Amini, per le percosse ricevute dalla “polizia della moralità”, corpo di 7.000 effettivi incaricato di garantire – anche con arresti e multe – il rispetto delle norme sull’abbigliamento decise dal regime. Le manifestazioni sono state represse con brutalità – finora i morti fra i manifestanti, nella quasi totalità donne – sono stati un centinaio, i feriti un migliaio e gli arresti quasi 4.000. Nonostante ciò, le proteste si sono rapidamente diffuse in tutto il paese.

LA PROTESTA INIZIALE SI ALLARGA ALLA SOCIETÀ E METTE IN CRISI IL REGIME DEGLI AYATOLLAH

Dopo pochi giorni, alle donne si sono aggiunti studenti e operai. Beninteso, la morte della giovane è stata solo la causa immediata e scatenante delle manifestazioni. Le vere ragioni sono economiche, sociali e anche politiche contro l’oligarchia teocratica degli Ayatollah, salita al potere dopo la rivoluzione khomeinista del 1978-79. Le proteste, per molti versi, stanno assumendo le caratteristiche di una rivolta, che tuttavia, a differenza di quanto avvenuto nelle “primavere arabe”, non può trasformarsi in un moto rivoluzionario, alternativo all’attuale regime, per mancanza di una leadership. Il regime degli Ayatollah non ha strumenti per difendersi se non la repressione.

La sua sopravvivenza dipende dalla coesione delle forze di polizia e dei paramilitari del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (CGRI) con i loro ausiliari (i temuti Basij), e dal fatto che le Forze Armate iraniane si mantengano neutrali e non appoggino i manifestanti, dando luogo a uno scontro di nazionalisti contro islamisti. È ciò che avvenne nella rivoluzione del 1978-79, quando l’esercito dello Shah rifiutò di sparare contro i manifestanti pro-Khomeini, e il rinascente sciismo fornì un comando alla rivoluzione. Oggi è comunque improbabile che avvenga qualcosa di analogo, anche se fra Forze Armate e CGRI esiste una forte rivalità per i privilegi e le ricchezze del secondo (che controlla metà dell’economia iraniana), e per la sua corruzione.

LA MOBILITAZIONE DOPO LA MORTE DELLA 22ENNE MAHSA AMINI

La morte della giovane curdo-iraniana mantiene un forte potere di mobilitazione. Nessuno crede alle affermazioni del governo che sia morta per infarto anziché per le percosse subite. Lo prova il numero delle donne iraniane che si taglia i capelli in segno di lutto, dolore e solidarietà, come è negli usi iraniani. A esse si aggiungono quelle che si scoprono il capo dall’hijab, in segno di sfida al regime. Qualcosa di simile era già avvenuto a luglio durante la festa nazionale della “Giornata dell’hijab e della castità”.

La ragione dell’attuale rivolta è identica a quella che aveva provocato le precedenti: l’insoddisfazione verso il regime teocratico degli Ayatollah, per il loro autoritarismo e la loro inefficienza economica e corruzione, nonché l’insofferenza per la dura repressione di ogni dissenso e la violazione dei diritti umani e civili da parte del regime.

IL RUOLO DELLE DONNE NELLE RIVOLTE CONTRO IL REGIME ISLAMISTA

Particolarmente interessante è esaminare il ruolo delle donne in tutte le proteste e rivolte in Iran. Fin dalla rivoluzione Khomeinista le iraniane hanno sempre avuto un ruolo importante, spesso determinante e comunque superiore a quello rivestito dalle donne nelle “primavere arabe”. Ciò deriva dal fatto che la condizione femminile è sempre stata più valorizzata in Iran che nella maggior parte dei paesi islamici, sin dai tempi del glorioso impero sassanide/persiano.

Lo conferma la Costituzione del 1906. Le iraniane hanno ottenuto il diritto di frequentare l’Università nel 1937 e di votare nel 1963. Oggi hanno diritto di presentarsi come candidate alle elezioni presidenziali (in quelle del 2020, ben 40 presentarono le loro candidature, ma tutte furono scartate dalle elezioni dal Consiglio dei Guardiani). Sono donne il 54% degli studenti universitari (68% nelle facoltà scientifiche: magari avessimo in Italia tali risultati!).

Durante la rivoluzione khomeinista, furono le donne della borghesia iraniana ad affrontare i soldati dello Shah, inducendoli a non sparare sulla folla. Le donne hanno sempre avuto un ruolo attivo anche nelle rivolte contro il regime islamista: nel Movimento Verde del 2009 – per protestare contro Ahmedinajad, lo “scimmiotto” ultra-radicale proveniente dai ranghi dei Pasdaran, e nelle rivolte del “Dey” (cioè dicembre) 2017 e dell’“Aban” o “Novembre di sangue” del 2019, in cui le forze di sicurezza uccisero 1.500 rivoltosi. Quest’ultima rivolta ebbe il suo epicentro a Mashhad, nel nordest del paese, che è la seconda città dell’Iran con 2,5 milioni di abitanti (Teheran ne ha 7-8 milioni).

UNA RIVOLTA CHE SI ESTENDE A MACCHIA D’OLIO PUÒ AVVIARE LA CRISI DEL REGIME DEGLI AYATOLLAH?

L’attuale “rivolta dell’hijab” si è diffusa in tutto l’Iran, estendendosi a ben 103 città. Il governo sembra deciso a sopprimere le manifestazioni, affermando che siano provocate da ingerenze estere, da Israele agli USA. Il regime non è capace o non può rimuovere le cause socio-economiche e politiche della rivolta. Il suo unico strumento è la repressione. Ha il vantaggio che non esiste una direzione unitaria delle proteste. Internet e l’utilizzo dei social media sono molto diffusi in Iran (più che in Italia).

L’IMPORTANZA DELLA RETE NELLA GESTIONE DELLA RIVOLTA

L’84% della popolazione ha accesso a Internet (72 milioni lo utilizza regolarmente) e sono in servizio 130 milioni di telefonini (1,6 per abitante). Tali “reti” orizzontali hanno una flessibilità e resilienza superiori alla “piramide” verticale delle forze centralizzate del regime. Il Freedom of Internet Act, pensato dall’Amministrazione Obama come strumento per sostenere la democratizzazione, può ora avvalersi anche in Iran dello Starlink di Elon Musk, riuscendo così a sopravvivere alla censura e al blocco dei server tentato dal regime di Teheran.

A fronte della mancanza di una direzione unitaria della rivolta, tuttavia, la “rete” serve per la mobilitazione ma non per la gestione di un processo politico alternativo all’attuale regime. Quest’ultimo non ha concorrenti. A parte i nostalgici del vecchio regime dei Reza Palhevi, l’unica forza organizzata che si oppone agli Ayatollah è il Gruppo dei “Mujahedin del Popolo” (MEK o MKO), che conta 3-5.000 combattenti dislocati in parte nel Kurdistan iracheno e in parte in Albania (la sua presenza spiega i motivi dell’attacco hacker fatto nel secondo paese lo scorso settembre). Sostenuto da Israele e, in maniera riservata, dagli USA (John Bolton lo aveva sponsorizzato presso Trump), il MEK effettua sporadici attentati contro il regime di Teheran. Tuttavia non ha grande seguito e non sarebbe in grado di garantire la leadership necessaria per un mutamento di regime.

LO SCARSO INTERESSE DELL’OCCIDENTE PER LA RIVOLTA CHE POTREBBE METTERE IN CRISI IL REGIME DEGLI AYATOLLAH

Stupisce lo scarso interesse dell’Occidente per la “rivolta del velo”, per la violenza della repressione, per l’incendio di un grande carcere della capitale e per il coraggio dimostrato dalle donne iraniane. A livello governativo ciò è comprensibile per la priorità attribuita, in particolare dall’amministrazione Biden, al rinnovo dell’accordo sul nucleare iraniano. Meno comprensibile è l’apatia delle organizzazioni femministe e di quelle di sinistra, pronte a mobilitarsi, almeno in Italia, per qualsiasi causa persa.

Se non fosse stato per l’arresto di una giovane italiana, Alessia Piperno, la rivolta del velo non avrebbe trovato spazio sui media italiani. Occorre prendere atto del fatto che la retorica sulla democrazia e sui diritti umani è sostanzialmente “aria fritta” rispetto agli interessi geopolitici e geo-economici.

Certamente il conflitto in Ucraina monopolizza l’attenzione di tutti i governi, che inoltre sono consapevoli che ulteriori sanzioni all’Iran sarebbero inefficaci a fermare la repressione. Infine, l’imbelle Europa – pur guardando con l’acquolina in bocca al fatto che l’Iran possiede le seconde riserve mondiali di gas naturale dopo la Russia, e ne è il terzo produttore (dopo la Russia e gli USA), anche se lo impiega pressoché completamente per i consumi interni – aspetta che qualcuno le “tolga le castagne dal fuoco”, anziché darsi da fare per togliersele da sola.


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