Vladimir Putin
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VLADIMIR Putin sembra voler smentire chi sostiene che il Cremlino potrebbe contentarsi dei territori ucraini che ha conquistato e accettare un armistizio. Al contrario, egli afferma che questo è solo l’inizio e che l’offensiva russa guadagnerà ancora altro impeto. Tuttavia resta il fatto che in quasi cinque mesi di guerra l’esercito russo ha completato la conquista della regione di Luhansk, ma non ancora quella della regione di Donetsk, per cui non è ancora riuscito ad assumere il controllo dell’intero Donbass, il territorio cioè che dovrebbe ospitare una nuova repubblica indipendente filo-russa, oppure essere annesso alla Russia stessa come la Crimea (la differenza tra le due ipotesi è in realtà solo nominale).
PER MOSCA SUCCESSI MODESTI
Il potente esercito russo ha subìto una cocente, durissima sconfitta nella prima fase della guerra, perché non aveva previsto la durezza della resistenza all’invasione, aveva sottovalutato la precisione e completezza delle informazioni fornite agli ucraini dai servizi di intelligence americani, e aveva sperimentato gravissime carenze organizzative e logistiche. Successivamente i russi hanno corretto alcuni di questi difetti e hanno concentrato le loro forze, riducendo le loro ambizioni iniziali. Il loro punto di forza si è rivelato nella larghissima disponibilità di artiglieria pesante a lunga gittata, coadiuvata da batterie di missili e razzi tattici.
Secondo alcuni calcoli, i russi bombardano giornalmente il fronte ucraino con migliaia di munizioni di grosso calibro. Il rapporto tra la quantità di questo tipo di munizioni usate dai russi e quelle equivalenti usate dagli ucraini viene stimato a circa 10 contro 1. Così facendo, però, essi stanno sostanzialmente radendo al suolo gli obiettivi contro i quali indirizzano i loro attacchi e finiscono per occupare militarmente aree ormai rese inabitabili.
A questo ritmo, il Donbass “liberato” è anche un Donbass completamente distrutto, che bisognerà ricostruire dalle fondamenta. Inoltre l’attuale offensiva russa deve i suoi (modesti) successi anche ai problemi di transizione che stanno sperimentando le forze ucraine. Esse, infatti, hanno ormai quasi completamente speso il materiale bellico che avevano a loro disposizione (e che era molto simile a quello in dotazione ai russi), mentre non hanno ancora un numero sufficiente di armi e mezzi di origine occidentale. Questo essenzialmente per due ragioni.
I CALCOLI DI VLADIMIR
La prima, perché ci è voluto un certo tempo per coordinare l’arrivo degli aiuti e decidere le loro caratteristiche, e ancora di più per superare alcune strozzature logistiche. Il fatto è che i mezzi e il munizionamento occidentale è sostanzialmente incompatibile con quello, di origine sovietica, a disposizione degli ucraini, e poi perché non tutti gli armamenti occidentali sono pienamente compatibili tra di loro: il che complica le linee logistiche e riduce l’impatto dei nuovi sistemi. A ciò si aggiunge il fatto che i militari ucraini debbono essere addestrati all’uso di questi armamenti, e questo richiede un certo tempo, specie per i mezzi più sofisticati e a lunga gittata. Lo sforzo addestrativo è in corso e si sta intensificando, ma si è comunque creato un vuoto temporale tra l’arrivo delle nuove armi e il loro impiego effettivo, che ha giocato a favore dei russi.
Questa finestra, però, si sta lentamente chiudendo, per cui la relativa impunità di cui hanno goduto le artiglierie russe dovrebbe cominciare rapidamente a ridursi, complicando nuovamente i calcoli dei generali del Cremlino. Perché, dunque, Putin fa la voce grossa e spera ancora di poter vincere su tutta la linea? Militarmente questa posizione sembra del tutto ingiustificata. Probabilmente, quindi, i suoi calcoli sono molto diversi: più politici che militari. Egli potrebbe puntare alla rottura del fronte alleato che oggi appoggia e rifornisce l’Ucraina, soprattutto in Europa e, in particolare, in Germania: il Paese destinato a soffrire di più in caso di una interruzione delle forniture di gas russo.
Putin è probabilmente convinto che le democrazie occidentali, nei cui confronti egli nutre un grande disprezzo, non riusciranno a reggere le pressioni politiche di una crisi energetica. Forse egli spera anche in un ritorno in forze, al Senato e alla Camera, negli Usa, il prossimo novembre, dei sostenitori di un’America First di stampo trumpiano, indifferente al destino dell’Ucraina. Tuttavia il suo potrebbe essere un calcolo piuttosto azzardato. Per piegare gli europei, egli non ha altre armi che il taglio delle forniture energetiche. Ciò, però, avrà anche, come conseguenza secondaria, sia una drastica diminuzione delle risorse economiche a sua disposizione che, a più lungo termine, la perdita, una volta per tutte, del ricco mercato europeo (perché certamente, dopo una simile esperienza, nessuno più sarà disposto a dipendere dalle esportazioni russe). Ciò potrebbe avere gravi conseguenze per la tenuta del suo regime.
IL FRONTE EUROPEO
Inoltre, in Europa, il costo economico della crisi sarebbe attribuibile direttamente alle scelte di Putin, impegnato in una guerra di conquista che non ha veri sostenitori, neanche tra coloro che propongono una linea politica più accomodante verso Mosca. Di più, egli dovrebbe considerare il fatto che la decisione da parte di un Paese europeo di rompere il consenso e la solidarietà occidentale isolerebbe pericolosamente quel Paese e quel governo ritenuti responsabili di una simile scelta. Al costo già gravoso del cedimento morale si aggiungerebbe un altissimo costo politico.
È molto improbabile che l’Ucraina possa vincere questa guerra, ma può continuare a impedire una vittoria della Russia, e questo per Putin può divenire un problema di sopravvivenza. Non meraviglia, dunque, che faccia la voce grossa, ma dovrebbe ricordarsi che già si è sbagliato una volta, quando pensava di fare una passeggiata militare in Ucraina, e di grosso. Può realmente permettersi di sbagliare ancora?
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