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Mario Draghi ed Emmanuel Macron

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CON il vertice di Madrid si è chiusa una otto giorni che si era aperta al Consiglio europeo di Bruxelles ed era poi proseguita sulle montagne della Baviera tra domenica e lunedì scorso ad un G7 con ospiti illustri quali il Primo ministro indiano Modi e i presidenti di Sudafrica, Argentina, Senegal e Indonesia. Ben lungi dal voler appiattire le specificità di ogni singolo summit, i tre momenti sono parte di una complessiva ristrutturazione del fronte occidentale, come reazione all’attacco russo all’Ucraina. La decisione scellerata di Vladimir Putin in quattro mesi ha messo in moto un meccanismo di elaborazione (virtuosa per chi scrive) come mai non si era svolto né dopo il crollo del mondo bipolare, né tanto meno dopo l’11 settembre 2001.

E il fatto che la nuova dottrina strategica della Nato citi esplicitamente la “minaccia cinese” è la dimostrazione che questa parvenza di nuovo Occidente, almeno in potenza compiutamente euro-atlantico, forse con un trentennio di ritardo, sta in maniera realista e pragmatica facendo i conti con sfide e minacce del XXI secolo. In questo quadro complessivo, il vertice Nato di Madrid ha offerto una serie di indicazioni, militari almeno quanto politiche, che delineano opportunità ma anche potenziali criticità sulle quali riflettere. Il primo elemento da sottolineare riguarda la rimodulazione del cosiddetto pivot to Asia da parte dell’amministrazione statunitense.

Quel percorso avviato da Obama e restato immutato nella sostanza (anche se cambiato nella forma, molto più grossolana) da Trump, è stato sensibilmente rivisto da Biden. Si può affermare che Putin abbia offerto l’assist perfetto affinché Biden e i suoi collaboratori potessero rinsaldare il fronte occidentale, senza però rinnegare il primato dell’interesse asiatico. In questo nuovo schema, Ue e Nato diventano due elementi cruciali. Del ruolo soprattutto economico, commerciale ed energetico della “nuova Ue” post-pandemica e post-24 febbraio molto si è scritto e molto si scriverà. Per quanto riguarda la Nato, dalla nuova dottrina strategica escono sostanzialmente due alleanze complementari. E questo è il secondo elemento di notevole rilievo.

Da un lato si struttura e si rafforza una sorta di “Nato baltica” o “Nato del Nord” che, sempre semplificando, si può definire a guida tedesco-polacca. Lo storico annuncio sulle spese militari di Berlino e la prossima costruzione della base militare avanzata statunitense in territorio polacco ne sono due indizi emblematici. È evidente poi che il dispiegamento di truppe Nato nelle tre Repubbliche baltiche e il simbolico (quanto significativo) via libera da parte dei trenta all’ingresso di Svezia e Finlandia, completano il mosaico.

Questa dimensione settentrionale della Nato per certi aspetti si riconnette con quella delle origini: i suoi obiettivi principali sono contenimento militare di tipo geografico e deterrenza dello storico nemico prima sovietico e ora putiniano (un futuro cambio al vertice a Mosca potrebbe far mutare e non poco il quadro). Dall’altro lato, magari in maniera meno evidente, da Madrid esce una complementare “Nato mediterranea”, a guida (sempre simbolica) franco-italiana (e in questo senso il Trattato del Quirinale e l’insistenza sulla cooperazione navale e cibernetica qualche ulteriore indizio lo aggiunge). Limitare a Roma e Parigi questa dimensione sarebbe da ingrati nei confronti perlomeno di Grecia e Spagna, ma allo stesso modo sarebbe da dilettanti dimenticare il ruolo, sempre ambiguo quando non irritante, di Ankara, però vero architrave di questo fronte sud dell’Alleanza Atlantica. Tale spazio mediterraneo di intervento è quello per certi aspetti più innovativo. Non si vuole dimenticare l’importanza del fianco sud nella storia dell’Alleanza atlantica in epoca di Guerra Fredda. Il salto di qualità odierno però è quello di considerare l’area mediterranea come una sorta di connessione tra il mondo euro-atlantico e quello asiatico, la testa di ponte euro-atlantica di contrasto virtuoso alla penetrazione economica e culturale, ma potenzialmente anche militare, della cosiddetta Via della Seta. Dunque, questa sorta di rafforzamento del fianco sud dovrebbe permettere all’Alleanza atlantica di connettersi con la nuova sfida globale tra Washington e Pechino.

Proprio questa considerazione finale è anche funzionale ad introdurre un’ultima quanto determinante riflessione che chiama in causa la legittimazione a livello di elettorati ed opinioni pubbliche proprio delle importanti novità così come emerse da Madrid. Anche in questo caso si cercherà di schematizzare al massimo il quadro. Draghi, Macron e Scholz, solo per citare tre leadership tra le più attive sulla scena internazionale nella lunga settimana tra Bruxelles, Elmau e Madrid, dovranno nei prossimi mesi fare i conti con opinioni pubbliche, elettorati e anche partner di governo per nulla allineati e compatti sulla nuova strutturazione euro-occidentale. Non è forse necessario ricordarlo, ma a Roma, Parigi e Berlino dominano sistemi liberaldemocratici, il cui tratto costitutivo è quello dell’esercizio delle libertà e di conseguenza è correttamente tutelato anche quello di dissentire rispetto alle linee di politica estera dei legittimi governi in carica. Il tema è però un altro, più impegnativo e per certi versi da un punto di vista di metodo più generale.

Se alle posizioni filo-atlantiche di Mario Draghi si accostano quelle di almeno due delle forze di governo che lo sostengono (i giallo-verdi per intenderci) e si vi si aggiunge poi qualche dato relativo ai sentimenti dell’opinione pubblica (un recente sondaggio Demos parla di circa il 60% degli italiani che oscilla tra scarsa o nessuna fiducia nella Nato) è impossibile non interrogarsi sulla potenziale scarsa tenuta del “fronte interno” italiano, nel momento in cui il Paese dovrebbe invece impegnarsi nella costruzione del rinnovato spazio euro-atlantico appena descritto. Se dal caso italiano si passa a quello francese è impossibile non notare che alle recenti presidenziali e ancora alle successive legislative è scaturita la fotografia di un Paese diviso tra tre blocchi. A quello centrista del presidente Macron si contrappongono le due “estreme” che sui temi della Nato, del contrasto alla Russia e della minaccia cinese hanno posizioni specularmente contrarie a quelle dell’esecutivo.

E che dire di Berlino? Apparentemente la coalizione semaforo e l’opposizione cristiano-democratica fanno a gara quanto a filo-atlantismo. Ma in realtà, se si escludono i Verdi e i Liberali, socialdemocratici e popolari faticano non poco a motivare le loro scelte di fronte ad un’opinione pubblica che pare interessata solo all’aumento dell’inflazione e ad una imprenditoria sempre più preoccupata sul fronte dei rapporti con il dragone cinese. In definitiva la domanda ultima appare questa: tutto ciò che è stato prospettato a Madrid sarà implementabile e soprattutto sostenibile dai rispettivi “fronti interni”? La prima metà del secolo scorso, con la drammatica guerra dei trent’anni (Prima e Seconda guerra mondiale) aveva in maniera inequivocabile dimostrato che le liberaldemocrazie, seppur scettiche e spesso diffidenti nello scegliere lo scontro frontale, una volta mobilitate, erano in grado di prevalere, sul medio-lungo periodo, rispetto ai regimi dittatoriali e totalitari e questo anche grazie a importanti incentivi in termini di allargamento delle libertà (politiche, economiche e sociali) per le proprie popolazioni. In questo primo quarto di XXI secolo il quadro sembra essersi pericolosamente rovesciato.

E tale capovolgimento appare una delle patologie più pericolose delle nostre malate democrazie: la scellerata esaltazione del carattere performante delle dittature. Dopo Madrid il futuro si deciderà sicuramente lungo la frontiera russo-ucraina, ma anche all’interno di ogni singola frontiera delle nostre malconce, ma imprescindibili, liberaldemocrazie.


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