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Matteo Salvini e il celebre bacio al rosario

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GIA’ ce lo immaginavamo Matteo Salvini con colbacco e cappotto a Mosca, una moderna riedizione di Totò e Peppino a Milano, mentre si fa un selfie davanti alla cattedrale di San Basilio sulla piazza Rossa, coerente con la sua recente riconversione ai valori religiosi. Magari impugnando un bel rosario – come quello agitato alcuni discussi comizi fa – per ricordare a tutti la sua personale sequela del messaggio di pace mutuato dalla Chiesa di Roma. Quale miglior viatico di un bacio al crocifisso per convincere quell’angioletto di Vladimir Putin, devoto osservante dei precetti della chiesa ortodossa guidata da Kirill, il pacioso e bonario patriarca di Mosca che vuole cancellare l’occidente degenerato dalla faccia dell’Europa?

Il capo della Lega era pronto a partire per la Russia. E a mettere il suo corpo di leader al servizio delle magnifiche sorti e progressive della pace tra i popoli. Dove non erano riusciti fior di dittatori, dal cinese Xi al turco Erdogan, o capi di governi democratici, dal francese Macron all’austriaco Nehammer, o esponenti delle organizzazioni internazionali come il segretario generale dell’Onu Guterres, poteva ben farcela lui, ex comunista padano ribattezzato leghista nelle acque del Po.

Come abbiamo fatto a non pensarci prima? Quanta manifesta imperizia da parte delle cancellerie europee che avevano proprio in via Bellerio l’uomo giusto per convincere il tiranno sanguinario a mettere i fiori nei propri cannoni? E invece. Nessuno ha mai chiesto niente al povero Salvini, che ha concepito la sua missione eroica in perfetta solitudine, senza nemmeno concordarla con Mario Draghi, il premier che la Lega sostiene a giorni alterni, forse per non correre il rischio di passare per gente seria. Non sia mai che poi ti danno credito.

Qualche solido fondamento per una chiacchiera con qualche grigio funzionario sottopancia dei piani alti del Cremlino c’era. La Lega, infatti, con il M5s di Giuseppe Conte, ha da sempre un legame profondo con Russia Unita, il partito di Vladimir Putin. Non a caso, all’indomani dell’invasione dell’Ucraina da parte del capo del Cremlino, il pistolero a sostegno della legittima difesa armata dei commercianti padani contro i rapinatori si è trasformato in un agnellino mansueto contrario all’uso delle armi e all’invio di aiuti militari al governo di Kiev. In questo risorto afflato evangelico e pacificatore, Salvini giura che la tappa successiva sarebbe certamente stata Kiev. Meglio dopo però, e senza impegno. Non si sa mai che finisce come in Polonia nel marzo scorso, quando Wojciech Bakun, il sindaco della città di Przemysl, avanguardia dell’accoglienza dei profughi ucraini, svergognò il leader della Lega, rinfacciandogli le sue imbarazzanti frequentazioni. E sventolando sotto ai suoi occhi la maglietta con l’effigie di Putin indossata da Salvini in occasione di precedenti visite a Mosca.

Nei giorni dopo la figuraccia, l’ex Capitano cercò di far perdere le sue tracce, adeguatamente protetto dal cordone sanitario dei suoi. Ma si vede che la lezione ricevuta dal viaggio in Polonia non è bastata. A Salvini è ritornato l’uzzolo del turista della diplomazia. Stavolta, però, è bastato un sopracciglio inarcato di Mario Draghi per farlo desistere. Poi il no comment con pacca sulla spalla del ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Infine, l’intervento nell’ombra del suo stesso cerchio magico, ormai vocato a fargli da badante, quasi che fosse un Berlusconi qualsiasi. Ma l’affondo più pesante arriva da Giorgia Meloni, alleata e competitor ad un tempo. “Bisogna fare molta attenzione a non dare segnali di crepe nel fronte, abbiamo in questa fase bisogno di una postura solida dell’Occidente. L’interesse italiano è dimostrarsi un alleato solido e affidabile”, ha detto la leader di Fratelli d’Italia.

Insomma, se Matteo voleva rialzare la testa per riagguantare Giorgia, in fuga nei sondaggi, è riuscito nel capolavoro di rafforzarla ulteriormente. Serietà, va cercando, ch’è sì cara.


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