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ESG: «Chi era costui?», avrebbe detto Don Abbondio. La sigla sta per Environmental, social, and governance e indica i criteri per coloro che investono e vogliono favorire le imprese che non mirano solo a massimizzare i profitti, ma anche a proteggere l’ambiente (Environment), a preoccuparsi della società in cui operano (Social) e a dotarsi di organi di governo capaci di controllare la loro condotta e di rispettare gli interessi dei piccoli azionisti (Governance).
In questi tempi tumultuosi, in cui sono andati navigando cigni neri di variate fattezze – dalla pandemia alla guerra in Ucraina, dall’inflazione alle diseguaglianze crescenti – sono forse queste ultime (le diseguaglianze) che oggi sono in cima alle cure della politica economica. Le economie si stanno risollevando dai colpi inferti dai cigni neri, ma chi ha sofferto maggiormente di questi “colpi”?
CHI PUÒ DIFENDERSI
A questa domanda si può rispondere riflettendo su chi può meglio difendersi, in tempi di sommovimenti economici, dalle ferite della crisi. È certo che chi si difende meglio è chi ha più potere negoziale: i più poveri non hanno quasi nessun potere negoziale, e anche i meno poveri, quelli che vivono di stipendi e salari, difficilmente possono difendersi dall’aumento dei prezzi esigendo aumenti delle remunerazioni.
Qualche potere negoziale lo hanno gli autonomi, che possono decidere di aumentare i prezzi dei loro servizi, così come le imprese, che possono giocare con i listini. La risposta è quindi semplice: le crisi, specialmente quelle dove l’inflazione gioca una grossa parte, aumentano le diseguaglianze.
Fortunatamente, c’è una Costituzione, che statuisce, all’Articolo 3: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini…».
Talché, durante le crisi, Parlamento e governo mettono in opera delle misure per lenire le piaghe della crisi stessa. Questo “mettere in opera” è stato specialmente efficace negli anni bui della pandemia. Basti guardare il grafico che mostra, per l’Italia, come è andato evolvendo, a partire dall’inizio del Covid a oggi, il reddito disponibile reale (cioè al netto dell’inflazione); e accosta questa evoluzione a quella dei consumi privati.
Come si vede, i consumi sono stati stagnanti o peggio, principalmente perché, negli anni del Covid e delle chiusure, era in pratica impossibile spendere. Ma il reddito era stato supportato generosamente da sussidi e ristori, talché le famiglie avevano potuto risparmiare parecchio, costituendo quel famoso “tesoretto” che oggi continuerà a essere utilizzato per sostenere i consumi.
CHI HA SOFFERTO DI PIÙ
Ma questo ancora non ci dice chi ha sofferto di più o di meno dalla crisi. Per capirlo possiamo rifarci a quel che abbiamo scritto il 29 marzo su queste colonne: «Ci sono due misure dell’inflazione: quella che viene da fuori e quella che viene da dentro, cioè “l’inflazione fatta in casa”. Di solito, queste vengono collassate in un’unica misura che interessa alla gente, cioè i prezzi al consumo. Ma è importante, per i provvedimenti di politica economica decisi dai reggitori della moneta, distinguere le due cose».
Il secondo grafico mostra due cruciali variabili tratte dalla contabilità nazionale: il deflatore del Pil (al costo dei fattori) e il costo del lavoro per unità di prodotto.
Il deflatore del Pil – il Pil è un concetto di valore aggiunto – non è influenzato dalle importazioni. Il valore aggiunto, come si sa (e come sanno quanti devono pagare l’Irap o l’Iva), si compone essenzialmente di salari e profitti – di remunerazioni, cioè, ai lavoratori e alle imprese.
Il deflatore del Pil è in fondo una media ponderata dei costi del lavoro per unità di prodotto e dei profitti lordi per unità di prodotto. Due variabili, queste, che dipendono dalle decisioni dei due attori economici, famiglie e imprese.
DISPARITÀ ESACERBATE
Come si vede dal grafico, il deflatore del Pil è aumentato molto di più del costo del lavoro per unità di prodotto (Clup) e, dato quel che si è appena detto, vuol dire che i profitti lordi per unità di prodotto sono aumentati ancora di più.
Insomma, la distribuzione del reddito è peggiorata, nel senso che la remunerazione del capitale è aumentata di più della remunerazione del lavoro, esacerbando le diseguaglianze.
L’economia italiana ha beneficiato di una migliorata competitività/prezzo, che viene confermata dalla nostra relativa moderazione salariale: l’Italia, in sostanza, è stata capace di mettere in campo una “svalutazione interna” (quella esterna, non avendo una propria moneta, non è più possibile), con aumenti dei costi del lavoro e dei prezzi che risultano minori rispetto ai concorrenti.
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