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Nell’anno in cui il Piano nazionale di ripresa e resilienza entra nel pieno della fase attuativa, con le risorse da mettere a terra, i numeri messi nero su bianco nella Relazione sullo stato di attuazione della politica di coesione europea e nazionale – illustrata dal ministro degli Affari regionali, Raffaele Fitto, nel corso dell’ultimo Consiglio dei ministri – alzano il livello di allarme sulla capacita di spesa del Paese.

Urgono rimedi. E, anche in vista dell’annunciato riallineamento tra tutti i programmi in campo – politiche della coesione, Recovery Plan, e il capitolo Repower Eu che vi si aggiunge e che – utilizzando il 7,5% dei fondi di coesione fa da trait d’union tra i primi due – il primo passo per invertire la rotta è stato la soppressione dell’Agenzia della coesione, le cui funzioni vengono assorbite dal dipartimento per le Politiche di coesione di Palazzo Chigi, nell’ambito della strategia di rafforzamento della governance per la gestione dell’enorme della mole di risorse assegnate all’Italia.

La Relazione mostra un quadro desolante, tanto più se si considera che il nostro Paese è uno dei maggiori beneficiari dei fondi della coesione – al secondo posto dopo la Polonia – ma si colloca tra gli ultimi posti per efficienza ed efficacia nell’utilizzo delle risorse assegnate – peggio fa solo la Spagna -, con una percentuale di spesa pari al 55% del programmato, contro una media europea del 69%.

E che la missione loro affidata, la riduzione dei divari territoriali, non solo è  tutt’altro che compiuta ma – mette agli atti l’Ottava relazione sulla coesione monoica, sociale e territoriale della Commissione europea” – la disparità sta aumentando, con i territori meridionali finiti nella “trappola dello sviluppo”: pur ricevendo un sostanziale sostegno da parte della politica di coesione non sono riuscite a sostenere una crescita a lungo termine, hanno bassi livelli di valore aggiunto nell’industria di qualificazione del capitale umano di innovazione e qualità istituzionale. Missione fallita dunque.

Ma veniamo ai numeri che raccontano più di mille parole.

Nel periodo di programmazione 2014-2020 l’Italia ha potuto contare, tra risorse europee (Fesr e Fes) e nazionali (Fondo di rotazione, ovvero il cofinanziamento nazionale e Fondo sviluppo e coesione) su una dote complessiva di 126,6 miliardi, ma alla fine del 2022 le risorse spese risultano pari solo a circa 43 miliardi, appena il 34%, che diventano rispettivamente 116  e 36 miliardi se si considerano gli interventi di contrasto per l’emergenza Covid, con una a percentuale di fondi spesi pari al 31% circa.

Dei 43 miliardi spesi – ricordiamolo su 126 – 35 sono relativi ai fondi Por e Pon (i programmi nazionali e regionali), in particolare 28 miliardi sono risorse dei Fondi strutturali europei, 8 del cofinanziamento nazionale. Gli altri 8 miliardi sono le risorse nazionali della Programmazione complementare e di programmi del Fondo di sviluppo e coesione (Fsc).

Entro dicembre bisogna chiudere la spesa dei Fondi europei del ciclo 2014-2020, il che significa che per non perderli l’Italia dovrebbe spendere in un anno 29 miliardi di euro – 19 di risorse Ue – il 46% delle risorse programmate, cioè quasi quanto è stato rendicontato dal 2015 ad oggi. 

Stringiamo la lente sul Fondo di sviluppo e coesione, che per legge riserva l’80% delle risorse al Mezzogiorno: su una disponibilità di 68,8 miliardi miliardi sono stati spesi appena 6,5 miliardi, il 13,2%.

E se nella relazione si sottolinea “l’allarmante” mancata garanzia dell’addizionalità delle risorse della politica di coesione, che – anche a causa dei tagli alla spesa per gli investimenti – è stata utilizzata perlopiù per sostituire le politiche ordinarie, l’utilizzo dell’Fsc ne è un’ulteriore prova: per quanto vincolato al perseguimento della politica di coesione, negli anni le sue risorse sono state spesso “deviate”:  29 disposizioni di legge ne hanno rosicchiato negli anni la disponibilità finanziaria, riducendone gli importi di cassa e di competenza per circa 10,3 miliardi; altre 34 disposizioni hanno dirottato 4,8 miliardi su specifici interventi; 4,15 miliardi, attraverso 18 delibere Cipess, sono stati destinati agli interventi di Regioni e Amministrazioni centrali per fronteggiare la crisi epidemiologica.

Senza contare la prassi di rendicontare i progetti finanziati con l’Fsc nell’ambito dei Por o del Pon in modo da non incorrere nella regola del disimpegno dei fondi europei.

Per quanto riguarda la programmazione 2014-2020 si registra una percentuale del 13,2% relativamente ai piani Psc, dell’11,7% per i Poc.

Nella relazione si suona l’allarme anche sull’impiego delle risorse del ReactEu, il programma che assegna ulteriori risorse ai programmi della coesione targati 2014-2020 per ampliare il ventaglio delle misure per far fronte alle ricadute del Covid. Si tratta di 14,5 miliardi, di cui 9,3 miliardi destinati al Mezzogiorno, ma la spesa certificata al 31 dicembre 2022 è pari ad appena 1,8 miliardi, il 12,5% delle risorse programmate.

Nel complesso fino al 31 dicembre l’Italia ha certificato alla Commissione europea una spesa di 35 miliardi, il 54% delle risorse programmate che ammontano a 64,9 miliardi sommando anche quelle del ReactEu. 

I 51 Programmi Operativi cofinanziati dal Fesr e dal Fse del ciclo 2014-20 hanno superato la soglia prevista per evitare il disimpegno automatico: nel complesso, per quanto riguarda la quota Ue, le domande di pagamento si sono attestate a 28 miliardi, a fronte di un target minimo fissato a 18,48.

Secondo i dati del Sistema Nazionale di monitoraggio (Banca Dati Unitaria – BDU – 31 ottobre 2022) – le risorse impegnate pari complessivamente pari a 51,7 miliardi, a 35,1 miliardi i pagamenti, rispettivamente il 79,7% e il 54,2% della dotazione complessiva programmata.

L’avanzamento finanziario dei programmi regionali evidenzia “un ritardo significativo“ delle regioni meno sviluppate e in transizione soprattutto in termini di pagamenti, inferiori di oltre 15 punti percentuali rispetto alle più regioni sviluppate.

In alcuni casi la “distanza” tra quelle del Sud e quelle Nord è abissale, anche se tra le regioni settentrionali non tutte brillano. Anzi.

Sicuramente agli estremi opposti di un’ideale classifica si collocano l’Emilia Romagna, che ha speso il 99% delle risorse dei programmi regionali nell’ambito del Fesr, e la Calabria dove i pagamenti si fermano al 47,9%. Poco meglio fanno la Sicilia e la Campania (rispettivamente al 56,1% e 56,5%). Meglio ha fatto la Basilicata, con una spesa del 71,9%, ancor di più la Puglia che ha raggiunto quota 84,2%, la percentuale più alta tra le regioni del Mezzogiorno. Tra le regioni del Centro Nord, oltre l’Emilia Romagna, solo il Friuli Venezia Giulia (93,9%) e Valle d’Aosta (88,7%) fanno meglio, Bolzano la supera appena (84,5%), e la Toscana la tallona (83,9%).

Guardando al Nord, è tutt’altro che brillante la performance della Lombardia, che ha speso solo il 63,9% delle risorse. Così come quella della Liguria (70,2%), del Piemonte (71,3%) e del Veneto (73,1%).

Le risorse UE ancora da richiedere alla Commissione europea, sulla base dei dati delle certificazioni di spesa al 31 dicembre 2022, sono pari a 19,9 miliardi. La spesa complessiva – risorse nazionali incluse -, come accennato sopra, risulta invece pari a 29,9 miliardi di euro (46%  per cento del valore delle risorse programmate. Intanto c’è da “riprogrammare” il nuovo ciclo 2021-2027 che vale 74 miliardi, di cui 42,2 di risorse Ue. L’accordo di partenariato, si sottolinea nella relazione, era stato siglato prima dello scoppio del conflitto russo-ucraino, i programmi sono ancora troppi, confermando l’Italia il Paese con il più alto numero in Europa, e pur riconoscendo la necessità di un raccordo e di una sinergia con il Pnrr, ne resta slegato, non consentendo quindi una visione e un’azione strategica integrata delle risorse in campo. Che è invece l’obiettivo alla base della rivoluzione della governance annunciata dal governo e disegnata nel decreto Pnrr licenziato giovedì dal Pnrr. Si punta quindi ad riallineare tutti i programmi: programma di coesione, Pnrr, e Repower EU che diventa un capitolo del Recovery e potrà usare fino al 7,5% dei fondi di coesione. La nuova strategia dovrà essere messa a punto entro 30 aprile, quando andranno consegnati a Bruxelles i piani Repower EU –  e la revisione del Pnrr.


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