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Con l’arresto di Matteo Messina Denaro, l’ultimo capo dei capi di Cosa nostra la cui latitanza è terminata dopo trent’anni, l’ultimo dei corleonesi, il latitante più ricercato in Italia e tra i più ricercati al mondo, la mafia non è sconfitta, ma è stato messo a segno un risultato storico nella lotta al crimine organizzato perché finisce il mito dell’imprendibilità di un “padrino” che aveva abbandonato la strategia stragista di Totò Riina e traghettato la piovra siciliana verso la strategia affarista.
L’«affarista», lo definiva, infatti, Riina in un’intercettazione in carcere in cui si lamentava del fatto che il suo ex pupillo ormai pensava soltanto ai «pali della luce», con riferimento all’interesse del suo ex pupillo per il settore delle energie alternative e il business dell’eolico.
LA LATITANZA
Pensava ai “piccioli”, Messina Denaro. Ma la vera forza di Cosa nostra, ed è anche questo che spiega la lunga latitanza, è stata, in questi anni, la capacità di sopravvivere grazie a una rete di complicità che si annidano nella politica, nell’economia, nelle istituzioni, e capo indiscusso di questa nuova fase della mafia è stato lui.
Ecco perché la sua cattura riveste un’importanza storica, e chissà se adesso che è finita la latitanza vuoterà il sacco, una volta sottoposto al 41 bis, il regime carcerario duro, lui che è stato un amante del lusso e delle belle donne. Lui che, soprattutto, custodisce segreti di mafia e, forse, segreti di Stato. Una nuova mafia, diversa da quella tradizionale di cui pure ha incarnato il volto più violento.
Latitante dal 1993, figlio di Francesco, il boss di Castelvetrano era inseguito da una montagna di mandati di cattura e di condanne all’ergastolo per associazione mafiosa, omicidi, attentati, reati in materia di armi ed esplosivi. Il capomafia trapanese è stato condannato per decine di omicidi, tra i quali quello efferato del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito strangolato e sciolto nell’acido dopo quasi due anni di prigionia.
LO SCONTENTO DI RIINA
Messina Denaro è stato condannato alla massima pena anche per le stragi del 1992, costate la vita ai giudici Falcone e Borsellino, e per gli attentati del 1993 a Milano, Firenze e Roma.
Una lunga scia di sangue di cui fu regista Riina, scontento però per come venivano gestiti gli “affari” da Messina Denaro, meno interessato a proseguire la catena di omicidi e molto più intento, invece, a coltivare una rete di relazioni esterne con una vasta zona grigia in cui si muovono imprenditori che sono vere e proprie galline dalle uova d’oro. Dal re dei supermercati Giuseppe Grigori al signore del vento Vito Nicastri, al patron dei villaggi turistici Carmelo Patti. Prestanome, gente che gli “appartiene”, insieme a tanti altri.
Ora la lente della Procura di Palermo, guidata dal procuratore Maurizio De Lucia, è sulla rete di coperture e complicità di cui l’ex super latitante ha goduto. Lo avevano avvistato in Sudamerica e in Tunisia, in Olanda e in Versilia, tracce dei suoi spostamenti sarebbero state notate nella vicina Calabria, ma alla fine era nella sua Sicilia. A Palermo, nella clinica privata Maddalena, dove da un anno, a quanto pare, si sottoponeva a cure oncologiche per un tumore all’addome col falso nome di Andrea Bonafede. Stesso nome di un nipote di un suo fedelissimo, ciò che ha insospettito gli inquirenti, insieme al panorama di intercettazioni da cui emergono mezze ammissioni di vari capimafia.
Era malato e aveva già subito due interventi. Ai sanitari diceva di amare la bella vita e, anche se gli piace stare da solo, durante il day hospital scambiava quattro chiacchiere. Non ha opposto resistenza e ha ammesso di essere Matteo Messina Denaro quando i carabinieri gli si sono avvicinati e gli hanno chiesto come si chiamasse. Intanto la struttura sanitaria era assediata da un centinaio di miliari del Ros e del Gis, ai quali non è sfuggito il tentativo di fuga di uno dei suoi fiancheggiatori, Giovanni Luppino, l’autista che accompagnava il boss nella clinica.
LA RETE DI COMPLICITÀ
Ma la rete di complicità e di coperture va molto oltre, gli inquirenti ne sono certi. Gli approfondimenti investigativi in corso sono cruciali. L’attenzione è massima. Trent’anni prima, il covo del suo predecessore, in seguito alla ritardata perquisizione venne “ripulito” di ogni traccia, forse di documenti riservati, perché passarono 18 giorni.
L’archivio di Riina è poi finito nelle mani del suo ex pupillo Messina Denaro? Così il capitano Ultimo, nome di battaglia del colonnello Sergio de Caprio che la mattina del 15 gennaio 1993 si lanciò insieme a tre suoi uomini sulla vettura su cui viaggiava Riina, ha risposto a questa domanda, intervistato dal Quotidiano del Sud nel trentennale di un altro storico arresto. «Forse poteva averlo Provenzano, ma sono stati arrestati quasi tutti, se lo giocano di notte l’archivio? Ne ho arrestati a centinaia e non ne ho mai trovati archivi, magari l’archivio c’è, ma bisogna chiederlo a chi fa le indagini. Forse sono io troppo ingenuo, ma se uno ha un’arma la usa e fa un ricatto. Altrimenti sono stupidi tutti questi che sono morti in carcere».
I SEGRETI CHE SCOTTANO
Trent’anni dopo la mafia più potente è la ‘ndrangheta, con cui Cosa nostra ha avuto sempre buoni rapporti. L’alleanza criminale risale ai tempi della strategia stragista. Nel processo ‘Ndrangheta stragista è stato condannato un altro fedelissimo di Riina, Giuseppe Graviano, che ha vissuto la stagione delle bombe insieme a Messina Denaro e che in aula ha lanciato avvertimenti, tirando il sasso verso gli “imprenditori del Nord”.
Fedele esecutore degli ordini di Riina, Graviano conosce segreti profondi, o almeno questo ha lasciato intendere durante deposizioni fiume in cui dice e non dice. Messina Denaro era l’ultimo dei custodi di quei segreti a essere rimasto fuori dal carcere. Lui che il carcere non l’ha mai conosciuto inizierà a svelare quei segreti? Forse nei palazzi del potere qualcuno trema.
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