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Il mare in burrasca non ha fermato le ricerche, proseguite tutta la notte. Alla ricerca di quei corpi che il mare non ha ancora restituito. Perché le ore trascorse dal naufragio del peschereccio di migranti davanti alle coste calabresi, avvenuto il 26 febbraio, rendono sempre più tenue la speranza che qualcuno possa essere sfuggito alla tragedia.
La Capitaneria di porto di Crotone, supportata dal reparto aeronavale della Guardia di finanza e dei Vigili del Fuoco, ha scandagliato il tratto di mare dinnanzi a Steccato di Cutro, cercando coloro che ancora mancano all’appello. Almeno 180 migranti, forse 250. Le testimonianze di chi è scampato al disastro sono ancora confuse, sconvolte dal dramma vissuto tra le onde del mare di inverno e con la costa della salvezza già in vista.
Al lavoro anche i sommozzatori della Guardia Costiera, incaricati di scrutare i fondali mentre l’elicottero della Capitaneria sorvola il cielo tentando di individuare qualche traccia. Il mare ha restituito altri corpi, abbandonati sulla stessa battigia dove le onde hanno scaraventato quel che restava dell’imbarcazione che, per chi si trovava a bordo, rappresentava la materializzazione della speranza. Infranta quando sembrava che il fortunale fosse superato.
Una tragedia che, probabilmente, non resterà senza conseguenze. Ora, però, è il momento dello sgomento, degli interrogativi, di una necessaria presa di coscienza su cosa e perché non abbia funzionato. E della ricerca, certo, partita immediatamente, quando la tragedia si era però già materializzata. Chiunque sia riuscito a raggiungere la riva, recuperato dalle onde, ha perso qualcuno. Un parente stretto, un familiare che aveva tentato assieme a lui, o a lei, di intraprendere il viaggio attraverso il braccio di mare che separa l’Italia dalle coste africane.
Alcune famiglie sono state distrutte, tanti i minori nel bilancio (provvisorio) delle vittime. Fra di loro anche due gemellini di pochi anni e un neonato, recuperati tra il mare e la spiaggia. Almeno venti i bimbi, di varia età, che hanno perso la vita. E, anche in questo caso, è una stima parziale. Un dramma di proporzioni immani tanto nelle sue proporzioni quanto nella ferita che è destinato a lasciare sul volto dell’Europa. Chiamata in causa direttamente, dall’evidenza della tragedia e dal richiamo di chi soccorre.
È un dibattito che ritorna quello sulle rotte migratorie. Silente o lampante. Di sicuro costante nella sua drammaticità, stretto fra la ricerca del futuro, tanto disperata da imporre la sfida del mare, e la crudeltà di chi, per interesse, mette in gioco vite altrui. Sono al momento quattro le persone fermate, sospettate di essere gli scafisti del barcone naufragato. Al fermo avvenuto nella giornata del 26 febbraio, ne sono seguiti altri tre, recuperati assieme ai sopravvissuti e, inizialmente, trasportati al centro per richiedenti asilo i Isola Capo Rizzuto. Le indagini si stanno basando sulle testimonianze dei migranti sfuggiti al disastro, ancora frammentarie e confuse, tanto da rendere impossibile stimare, con esattezza, le reali proporzioni della tragedia.
L’ennesima ascrivibile al tentativo di raggiungere le coste italiane da quelle opposte del Mediterraneo. Rotte che, come ricorda Emergency, non possono essere fermate ma solo gestite mettendo la vita delle persone al primo posto. Lo ha ricordato il responsabile Sar, Emanuele Nannini, che ha parlato di «una tragedia attesa» e, potenzialmente, destinata a ripetersi: «Se si innalzano muri la gente cercherà di scavalcarli e affronterà sempre più rischi per farlo. L’accordo Europa-Turchia è un chiaro esempio di come intercettazioni e restringimenti non solo non fermano i flussi ma li rendono molto più pericolosi». Ciò che è accaduto in Calabria, ha spiegato, «si potrebbe ripetere tra qualche ora. Assistiamo sempre alla stessa indignazione davanti a ogni tragedia ma non cambia mai nulla».
La gestione come unico reale strumento per affrontare la crisi migratoria. Gli appelli incrociati dell’ong convergono tutti su questo punto, oltre che sulla critica ai blocchi delle navi di soccorso. Al contempo, un richiamo all’inefficacia di scelte politiche ritenute direttamente responsabili dell’accrescersi dell’emergenza. Dopo il naufragio, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, aveva fatto appello all’Europa, affinché «assuma finalmente in concreto la responsabilità di governare il fenomeno migratorio per sottrarlo ai trafficanti di esseri umani». Un punto cruciale che, oggi come in passato, infiamma il dibattito dell’opinione pubblica. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, aveva richiamato alla necessità di «percorsi sicuri, ordinati e legali per migranti e rifugiati» perché «finché bande criminali controlleranno le rotte migratorie, le persone continueranno a morire».
Il problema è nell’interregno che trova posto tra la presa di coscienza e la messa in pratica di piani strutturati. Una zona franca in cui i viaggi alla ricerca del futuro continuano e le tragedi tornano a ripetrsi. Secondo il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, «la disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli». Parole immediatamente replicate dal responsabile dell’intervento di Medici Senza Frontiere a Crotone, Sergio Di Dato: «A queste persone dovrebbe essere garantito di non mettere a rischio la propria vita e la vita dei propri figli. Il discorso è che a monte bisognerebbe creare dei canali di flusso, chiediamo la possibilità alle persone di potersi spostare in Europa in maniera sicura». Quella stessa Europa che, ancora una volta, si trova a fare i conti con una tragedia che riporta brutalmente l’attenzione del mondo sulle rotte mediterranee, sui viaggi alla ricerca di una speranza che, troppe volte, naufraga ancor prima di essere concepita. Lasciando pesanti interrogativi nelle coscienze degli uomini. Perché nel Mediterraneo, culla della civiltà europea, si continua a morire. E ai morti non resta neppure il loro nome.
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