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L’8 settembre 1943 in poche ore si assistette allo sgretolarsi dello Stato e del fascismo, al venir meno di qualsiasi punto di riferimento, allo sbandamento di interi reggimenti e privi di direttive

Bastò qualche giorno, dopo l’annuncio del ritiro dell’Italia dal secondo conflitto mondiale, perché il Paese si ritrovasse spaccato in due, investito in gran parte del suo territorio dal ciclone della «guerra totale». È stata, questa, la dolorosa conseguenza del calcolo attendista della Corona e del Comando supremo, dell’ambigua fuoriuscita dall’avventura bellica del fascismo ad opera del blocco di potere che per oltre vent’anni lo aveva spalleggiato e che aveva cercato di rimanere in sella con il colpo di mano del “25 luglio” e la defenestrazione di Benito Mussolini. Nello spazio di alcune ore si assistette allo sgretolarsi dello Stato, al fulmineo venir meno di qualsiasi punto di riferimento, allo sbandamento di interi reggimenti e corpi d’armata, privi di direttive che non fossero indicazioni generiche e contraddittorie.

Preceduta dalle diserzioni di massa del luglio-agosto 1943, quando le sorti della guerra erano irreparabilmente compromesse per l’Italia e si era ormai consumato il divorzio tra il regime fascista e larghi strati della società, la proclamazione dell’armistizio – la sera del fatidico otto settembre – fu immediatamente seguita dall’ignominiosa fuga di Vittorio Emanuele III, del maresciallo Badoglio e dei vertici militari, atterriti dalla prospettiva di subire la ritorsione dei tedeschi. Per le modalità con cui fu reso pubblico e attuato, l’armistizio provocò la repentina dissoluzione degli apparati statali, la decomposizione delle forze armate, la defezione delle gerarchie militari.
Senza aver ricevuto alcun ordine chiaro e tempestivo dal re e dal capo del governo, Pietro Badoglio, la maggior parte dei generali e degli ufficiali intermedi non pensò ad altro se non a dileguarsi.

Braccati dalle truppe germaniche, che erano affluite massicciamente in Italia per sottomettere gli ex alleati, centinaia di migliaia di soldati si diedero alla fuga, intraprendendo una vera e propria odissea per far ritorno a casa. Abbandonate le uniformi e le armi, alla disperata ricerca di cibo e indumenti, i più fortunati beneficiarono di cure e assistenza, dell’aiuto prezioso delle popolazioni locali, specialmente delle donne, protagoniste di quel fenomeno collettivo che è stato definito «maternage di massa» dalle studiose più inclini (in prima battuta Anna Bravo) a individuare e a indagare forme specificamente femminili di «resistenza civile».

Tra di essi, come tra i civili, l’illusione della pace così tanto agognata, suscitata dalla notizia della cessazione delle ostilità contro gli Alleati, svanì subito; incombeva, invece, la tragica realtà di un conflitto stabilmente penetrato nel “vissuto” e nel “quotidiano”, sempre più sconvolti dallo scarseggiare dei viveri, dal dilagare della fame, dallo sfollamento delle città esposte a martellanti incursioni aeree, che soprattutto nel 1943 seminarono morti e distruzioni.

Con estrema rapidità la Wehrmacht disarmò l’esercito italiano e assoggettò i quattro quinti della Penisola, impossessandosi di un enorme bottino: 1.250.000 fucili, 33.000 mitragliatrici, quasi 10.000 pezzi d’artiglieria, 15.000 automezzi e ingenti quantità di carburante, munizioni e materiale vario. Come ha sottolineato la storiografia, si trattò dell’ultimo, grande successo militare della Germania nazista.

Predisposta sin dal maggio 1943, quando si andavano accentuando le difficoltà dell’alleato fascista, l’Operazione Achse – era questo il nome in codice del piano elaborato dallo stato maggiore tedesco – portò all’internamento di circa 800.000 soldati e ufficiali italiani, la gran maggioranza dei quali rifiuterà di aderire allo Stato fantoccio della RSI capeggiato da Mussolini e sarà impiegata nel lavoro coatto all’interno degli ingranaggi economici del Terzo Reich. Classificati come Imi (Internati militari italiani), in base all’espediente trovato dallo stesso Hitler, questi nostri sventurati connazionali furono privati della tutela accordata ai prigionieri di guerra dalla Convenzione di Ginevra e pure di quella assicurata dalla Croce Rossa Internazionale.

Ad essere inchiodati a questo triste destino saranno, tra gli altri, due napoletani rinchiusi nel campo 12°/D di Trier (Treviri): Michele Ottaiano e Vincenzo Meo. Il primo, catturato in Grecia e costretto ad un viaggio di dieci giorni in un «carro bestiame», veniva quotidianamente condotto a sgobbare nelle fonderie, «in condizioni disumane di vestiario e di cibo». Sarà utilizzato anche nell’ingrato compito di seppellire i numerosissimi morti causati da un bombardamento sulla città di Kassel. Il secondo, prelevato dai tedeschi – insieme con altri commilitoni ricoverati nel 52° ospedale da campo situato ad Atene – sarà destinato dall’organizzazione Todt a lavorare in una panetteria nella provincia di Coblenza.

Disprezzati – alla luce di un criterio di valutazione politico-razziale – come «traditori badogliani» e «meridionali», gli Imi nei campi di Küstrin, Sandbostel, Wietzendorf, ecc., patirono la fame e vessazioni di ogni genere: più di 50.000 non riusciranno a rivedere i loro cari e altrettanti moriranno al loro ritorno in Italia per malattie contratte durante la prigionia. Su questa pagina, a lungo misconosciuta, ha richiamato con forza l’attenzione Alessandro Natta ne L’altra Resistenza, un libro non a caso uscito nel 1997, a oltre quarant’anni di distanza dall’originaria stesura.

Nel rievocare, nella premessa, quelle vicissitudini, colui che è stato il successore di Enrico Berlinguer alla guida del Pci (1984-1988) ha rimarcato come gli italiani presi dai tedeschi si convinsero ben presto di essere dinanzi «a qualcosa di diverso dal potere di uno Stato ostile», di doversi misurare «con un nemico politico – il nazifascismo – con un nemico straniero e uno di casa nostra». Per questo motivo la decisione di rimanere volontariamente nelle spire della detenzione assunse «il senso di un pronunciamento e il carattere di una opposizione politica e ideologica», rendendo necessaria la rottura con il bagaglio di idee e certezze del periodo fascista, spesso attraverso un travagliato passaggio.

Contro i soldati del regio esercito che, all’indomani dell’armistizio, provarono a non soggiacere alle intimazioni naziste, come pure nei confronti dei civili, specialmente quelli che si trovavano a ridosso delle zone di combattimento o fecero causa comune con i militari italiani, le truppe tedesche agirono in maniera spietata. Si pensi a quanto accadde l’11 settembre a Nola, in provincia di Napoli, dove giustiziarono a sangue freddo 10 ufficiali, o a Barletta, in Puglia, dove reparti della divisione Hermann Göring si scontrarono con gli uomini del 15° reggimento costiero, sostenuti dalla popolazione locale. Pesantissimo il bilancio finale: 37 morti tra i militari italiani (altre decine di cadaveri in uniforme saranno poi rinvenuti nei dintorni del centro abitato), nonché 24 civili, 2 netturbini e ben 11 vigili urbani, che furono fucilati in quanto ritenuti responsabili dell’ordine pubblico.

Tra le file di un esercito in precipitoso scioglimento non mancarono gli atti di coraggio, che videro distinguersi decine di migliaia di soldati e ufficiali in Italia, nei Balcani e nelle isole greche. Il caso più noto e cruento fu quello che si concluse con il massacro della guarnigione di stanza a Cefalonia, in gran parte composta da militari della divisione “Acqui”, oltre che da finanzieri, carabinieri e marinai. Il rifiuto del diktat della Wehrmacht, suggellato da un referendum interno – un’autentica novità in palese contraddizione con la rigida concezione gerarchica della disciplina militare italiana – fu pagato a carissimo prezzo: migliaia e migliaia le vittime (alle gravi perdite negli scontri a fuoco si aggiunse un numero imprecisato di caduti dopo la resa tra fucilazioni, stragi e affondamenti di navi su cui erano stati imbarcati i superstiti).

Complessivamente elevato risulterà il sacrificio degli uomini in divisa nel contrastare gli ex camerati; circa 90.000 daranno la propria vita nella lotta di liberazione dal nazifascismo e al fianco dei partigiani jugoslavi e albanesi. Più o meno nel giro di un mese, a partire dall’8 settembre, migliaia di militari nonché centinaia di civili furono falciati dal fuoco germanico in una miriade di episodi che spesso non avevano alcuna apparente connessione, ma che segnarono «l’alba tragica» della Resistenza, il cui significato non può essere compreso se si prescinde dalla situazione dell’Italia in quel tornante storico. Come attestarono i fatti di Porta S. Paolo a Roma (9-10 settembre ´43) e anche quanto avvenne a Napoli dopo l’armistizio, i civili in più di un’occasione si affiancarono ai militari nel tenere testa agli invasori nazisti.

Nel marasma generale seguito al collasso dello Stato ognuno cercò di aggrapparsi al piccolo gruppo, alla rete amicale, ai legami parentali, oscillando fra gli stati d’animo della paura e della speranza, fra la tentazione di «stare alla finestra» e la necessità di compiere una scelta, cosa quest’ultima tanto più difficile dopo che vent’anni di dittatura fascista avevano anestetizzato la facoltà di decidere autonomamente. In quel frangente variegata è stata la gamma dei comportamenti: si andò dal disorientamento alla presa di coscienza politica, poli del «campo del possibile», dentro cui – come ha osservato Claudio Pavone in Una guerra civile – furono spinti ad addentrarsi centinaia di migliaia di italiani, che erano stati ‘educati’ ed indottrinati dal fascismo.

Il «trauma dell’8 settembre» aprì la fase cruciale delle «scelte», del momento in cui occorreva decidere se schierarsi o meno, se e da quale parte stare: se attendere il placarsi della bufera, se invece imbracciare le armi contro il nazifascismo o sposare la causa del terrificante “Nuovo Ordine” nazista, dei fautori del motto «credere, obbedire, combattere». Mentre già gli «unni meccanizzati» colpivano con stragi e rappresaglie civili e militari sbandati, da una coraggiosa disobbedienza di massa nacque – al Nord come al Sud – la Resistenza.

Civili e militari sbandati, non pochi dei quali meridionali, misero allora in moto un processo che portò alla congiunzione tra l’antifascismo politico della clandestinità e dell’esilio, o ridestatosi sotto l’incedere della guerra, e quello della «generazione ribelle» di giovani operai e studenti, la cui maturazione politica fu potentemente accelerata dal turbinoso precipitare del conflitto mondiale. Nel lungo e cruento settembre ’43 si incontrarono e amalgamarono l’onda breve, ma prorompente, della resistenza civile e l’onda lunga dell’antifascismo storico nelle sue differenti articolazioni, i cui contenuti politici si saldarono progressivamente alle motivazioni di ampi strati della società, ponendo così le premesse del cammino – un cammino accidentato e tortuoso – verso la democrazia e la repubblica.

La drammaticità dei risvolti e delle implicazioni concernenti la cesura dell’8 settembre – una vera e propria data spartiacque nella storia dell’Italia contemporanea – è stata resa bene dal film di Luigi Comencini del 1960, Tutti a casa, in cui il sottotenente Innocenzi, interpretato da Alberto Sordi, finito con i suoi uomini sotto il fuoco di reparti germanici, esprime tutto lo smarrimento e sconcerto di quei giorni con la paradossale frase: «è accaduta una cosa incredibile: i tedeschi si sono alleati con gli americani!» E con il «tutti a casa» l’Italia divenne davvero – secondo il giurista sardo Salvatore Satta – «terra di nessuno», andando incontro alla «morte della patria».

Il suo punto di vista, le sue considerazioni verranno ripresi e fatti propri intorno alla metà degli anni Novanta del Novecento dagli storici Renzo De Felice ed Ernesto Galli della Loggia, che hanno visto dispiegarsi, in seguito a quegli eventi, lo sfaldamento della nazione e della sua identità.

In realtà, con l’8 settembre entrò irrimediabilmente in crisi l’idea fascista di patria, la sua declinazione in senso autoritario e imperialistico, in nome della quale il regime mussoliniano si era lanciato in ben tre guerre, di cui l’ultima gli risultò fatale. Ne uscì – è vero – profondamente screditata l’idea stessa di patria, anche se i resistenti ne proporranno una nuova versione, antitetica a quella fascista, raccordando il motivo patriottico alle aspirazioni alla libertà e alla giustizia sociale, calpestate dalla ventennale dittatura in nome della trinità ideologica «Dio, patria e famiglia».


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Francesco Ridolfi

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