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La morte è come una grande amnistia che azzera tutte le pendenze: rimette a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori. Sopravvive la memoria. Quando chi muore è un ‘’monarca’’ vi è un sovraccarico di emozione rivolta, più che alla persona, alla sua immagine nella fantasia popolare. Ricordo nettamente, venti anni or sono, di aver assistito ad una vera e propria beatificazione dell’avvocato Giovanni Agnelli: decine di migliaia di cittadini che sfilano in silenzio fino a tarda notte, tutte le autorità dello Stato, politici, imprenditori, star dello sport che si genuflettano. Funerali in diretta tv e giornali che sparano, in decine di pagine, i pezzi “coccodrillo” preparati da mesi; le persone di famiglia schierate a fianco della bara scrutate in ogni movimento da cronisti con la penna ispirata. Certo, la commozione e il compianto erano giustificati; era scomparso una persona che aveva scritto un pezzo importante della storia del Paese e rappresentato l’immagine migliore dell’Italia nel mondo. E a venti anni di distanza da quell’evento, in un Paese di nani, diventa naturale ricordarsi di un gigante.
Ma se davvero fosse consentito ai morti di osservare di nascosto le azioni dei viventi, Giovanni Agnelli sarebbe il primo a stupirsi di tanto clamore. E a commentarlo con la consueta ironia (Agnelli definì Ciriaco De Mita, ‘’un intellettuale della Magna Grecia’’). Perché, da uomo di mondo, l’Avvocato era consapevole di non essere un santo; la sua vita – corredata, come quella di tutti i mortali, di luci e di ombre – avrebbe meritato, alla fine, un giudizio serenamente equanime quando si fosse depositato il polverone dell’agiografia.
Eppure, dopo tanti anni nessuno, in questi giorni, si è azzardato a scriverne. Chi lo ha fatto si è limitato a raccontare di averlo conosciuto, aggiungendo qualche particolare che andasse oltre la moda di portare l’orologio sul polsino della camicia e la cravatta sul gilè. Giovanni Agnelli se ne andò senza lasciare eredi. A sancire questo “crepuscolo degli dei” non ci ha pensato solo un destino crudele, il quale ha voluto che, nel Casato sabaudo, i padri fossero condannati a seppellire i figli. L’Avvocato per antonomasia era già un sopravvissuto illustre di un’epoca svanita da tempo: un grande sauro miracolosamente scampato all’ecatombe della sua specie. Agnelli era la classica espressione del c.d. capitalismo delle grandi famiglie, un fenomeno non solo italiano, ma europeo e mondiale. Fondati da un capostipite, i grandi gruppi industriali (Krupp in Germania, la Fiat in Italia, la Ford negli Usa e tanti altri) erano prima di tutto un patrimonio di famiglia, quasi un feudo della modernità.
I giovani rampolli “vestivano alla marinara”, seguivano un duro “cursus honorum” nell’azienda paterna, imparando ad obbedire prima che a comandare. Così si guadagnavano i galloni. Chi non era adatto veniva escluso. Anche il giovane Gianni aveva svolto il suo tirocinio all’ombra di Vittorio Valletta, fino a quando non aveva dimostrato di saper tenere ben saldo il timone del gruppo. L’industria italiana, allora, iniziava e finiva in un elenco di dinastie celebri, legate tra loro da intrecci azionari, da sindacati di controllo stipulati con la mediazione di Enrico Cuccia. Laddove occorreva, le alleanze si cementavano con sapienti legami matrimoniali, come tra le case regnanti nei secoli scorsi.
Col passare degli anni questi gruppi esclusivi hanno ceduto il passo ora ai boiardi di Stato (quando le Partecipazioni statali intervenivano nell’economia), ora ad “homines novi” che avevano fatto fortuna. Negli altri Paesi sviluppati i potenti kombinat familiari si sono trasformati in public company, il cui capitale azionario è detenuto dagli investitori istituzionali per conto di milioni di risparmiatori, mentre lo scettro di comando è nelle mani di “capitani di ventura” superpagati (i manager), legati all’azienda da vincoli contrattuali, non da rapporti di sangue.
In Italia, per tanti motivi, le grandi imprese (anche quelle affrancate dal sistema PPSS) sono diventate un’eccezione, in mezzo ad un universo di “sciur Brambilla”, magari capaci di esportare il 90% della loro produzione. Ma la Fiat e la Famiglia rimanevano al loro posto, a sfidare gli eventi, le mode, i cambiamenti. Certo, anche la Fiat aveva mutato pelle più volte, ridimensionando la propria presenza a Torino e in Piemonte, decentrandosi al Sud, allargando gli interessi a settori diversi dall’auto. L’Avvocato, finito il sodalizio con Romiti (insieme al quale vinse la battaglia contro il sindacato nel 1980), aveva ceduto le armi ai manager. Era divenuto un sovrano-simbolo, un re che regnava ma non governava. Persino il furore iconoclasta del Pool di Milano non si azzardò a chiamarlo in causa: fu praticamente il solo grande imprenditore a cui fu riconosciuto di poter ‘’non sapere’’ ciò che avveniva alle sue spalle. La morte arrivò puntuale, in tempo a liberare l’Avvocato da un mondo che gli era divenuto estraneo.
Si chiuse così un capitolo di storia patria, che non è possibile riaprire, perché, in fondo, l’Italia e la sua classe dirigente non hanno mai accettato l’invito a “varcare le Alpi” e corrono da sempre il rischio di “sprofondare nel Mediterraneo”. Oggi la Fiat ha cambiato persino nome. L’ultimo erede non porta neppure il cognome della Grande Famiglia. Il gruppo è incorporato all’interno di una impresa multinazionale, candidata, nella nuova dimensione societaria e industriale, a fare parte di quelle poche holding dell’automotive che sopravviveranno nel pianeta convertito all’ecologia. L’auto, simbolo di emancipazione, di libertà individuale e di benessere sta diventando il principale nemico del terrorismo green, della lotta agli idrocarburi di quanti si mobilitano in Europa in nome di una superstizione scambiata per nuova religione.
Sul piano sindacale di Agnelli – oltre alla vertenza dei 35 giorni del 1980 che ha cambiato la storia del sindacato, va segnalato il ritiro delle sospensioni di migliaia di lavoratori, nell’autunno del 1969, che segnò una delle più cocenti umiliazioni del vertice torinese. Anche l’intesa Agnelli-Lama del 1975 sul punto unico di scala mobile – che fece più danni, all’economia e al lavoro, dell’invasione di uno sciame di cavallette in un campo di grano – fu classificata, allora, non come una resa al sindacato, ma come un atto di apertura negoziale.
Nessuno, tra i dirigenti sindacali, oggi, si prende la briga di ricordare, autocriticamente, quante volte, la Fiat venne messa con le spalle al muro proprio in seguito a lotte sindacali dissennate. A salvare il gruppo furono, nel contesto di trasformazioni produttive importanti ed essenziali, due manager ‘’esterni’’: Cesare Romiti e Sergio Marchionne.
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