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VENTOTTO milioni e mezzo di post in un giorno. Ventotto milioni e mezzo di hashtag con la scritta “Black Out Tuesday”. Ventotto milioni e mezzo di schermate nere in segno di lutto, ma anche nere come la pelle del povero George Floyd, quel ragazzone di colore barbaramente ucciso, alcuni giorni fa, durante un arresto violento ad opera della polizia di Minneapolis. Ventotto milioni e mezzo di messaggi sui social network, affidati soprattutto a Instagram, con tutte le più influenti celebrità internazionali della musica, del cinema e dello sport americane unite da un unico dolore lacerante e un forte senso di ingiustizia sociale.
Un martedì listato a lutto e rimbalzato sulla rete, arrivato sugli smartphone di ognuno di noi, attraverso preghiere, testi di canzoni, immagini iconiche di Martin Luther King, Malcom X, John Lennon e pugni chiusi alzati al cielo, per via dei sogni di uguaglianza e integrazione ancora una volta spazzati via. Da Madonna a George Clooney, da Michael Jordan ai Rolling Stones, ai premi Oscar Viola Davis e Denzel Washington, l’altra faccia dell’America si è guardata allo specchio e ha pianto, preferendo il silenzio alle rivolte dei più facinorosi che stanno mettendo a ferro e a fuoco molte città statunitensi.
Una universale giornata di lutto che ha inondato la grande piattaforma social per il fattaccio brutto di Minneapolis, con un dissenso che ha preso la forma di una preghiera laica affidata alle parole giuste e pesanti come macigni di Michelle Obama. Sulla sua pagina seguita da 40 milioni di persone, l’ex First Lady, a corollario di un bellissimo ritratto di Floyd dell’artista Nikkolas Smith, ha scritto: «Come molti di voi soffro per queste recenti tragedie», riferendosi agli ultimi nomi di una lunga lista di fratelli neri uccisi dalla polizia. «Sono sfinita, questo crepacuore sembra non fermarsi mai e va avanti e avanti. La razza e il razzismo sono una realtà che molti di noi subiscono sulla propria pelle e, crescendo, imparano ad affrontare. Ma per superare tutto questo dobbiamo capire che non può essere solo un “problema” delle persone di colore, ma riguarda tutti noi, tutti». Poi la stoccata finale: «Dobbiamo fare tutti un esame di coscienza ascoltando coloro le cui vite sono diverse dalla nostra. E pretendere giustizia, compassione, umanità nelle nostre vite e nelle nostre strade. Prego affinché tutti noi possiamo compiere questo viaggio alla ricerca dell’uguaglianza razziale, così come prego per le anime e le famiglie di coloro che sono stati uccisi».
Sconvolgenti ma piene di lucidità le parole del regista Gabriele Muccino, uno degli italiani più titolati a raccontare l’America, lui che ad Hollywood ci ha vissuto per circa 15 anni realizzando quattro film, tra cui il suo capolavoro “La ricerca della felicità”. In una lunga intervista all’AdnKronos, il regista ha ribadito ciò che aveva scritto sulla sua pagina Instagram a margine di un video scioccante: «Questa è purtroppo l’America che anche io ho conosciuto. E da cui un giorno sono scappato via».
Muccino, che appena sarà possibile riporterà sul grande schermo il suo ultimo film “Gli anni più belli”, smontato dalle sale a causa della pandemia, ha tuonato senza troppi giri di parole. «Uno dei motivi per cui ho avuto un rifiuto forte per l’America riguarda il suo essere un Paese violentissimo, con una violenza tangibile che entra sottopelle. Non dobbiamo dimenticarci che si tratta di un Paese nato sulla violenza contro i nativi. Qualunque afroamericano è discendente di una famiglia di schiavi, da allora sempre tenuti in un regime di sottomissione. È il tessuto della società americana che prima ti terrorizza e poi, specie per chi ha una cultura europea, o ti schiaccia o ti mette in fuga. Io ho visto almeno una volta a settimana qualche nero ammanettato e perquisito dalla polizia senza aver fatto nulla. La realtà razziale in America è un profondissimo disagio da sempre. Gli abusi della polizia sono noti. E la differenza di questi giorni è scaturita dal fatto che l’intera evoluzione dell’arresto di Floyd è stata tutta filmata. In qualunque altra circostanza avrebbero detto che il soggetto aveva fatto resistenza al pubblico ufficiale e quindi il caso sarebbe rientrato, come in altre decine di occasioni. Quella del ginocchio sul collo è una pratica che la polizia esercita normalmente. In America ti arrestano facilmente e se sei nero non sai come va a finire. Pochi giorni fa ad un nero che faceva jogging due bianchi gli hanno sparato. Questa è l’America. Il razzismo è talmente forte che molti neri vengono uccisi perché il razzista suprematista bianco, appena li vede nel proprio quartiere, spara, cavandosela con una legittima difesa personale».
Un razzismo che, per Muccino, riguarda anche le vittime del Coronavirus negli Stati Uniti. «C’è una diseguaglianza enorme che si è riflettuta anche nell’accesso alla sanità che non è pubblica, per cui i poveri che spesso sono neri non si sono potuti curare: il motivo per cui i morti americani sono così tanti è perché tre quarti erano di colore e non sono neanche potuti andare all’ospedale».
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