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La propaganda si basa anche sulle scelte terminologiche, questo è un fatto che chi si occupa di comunicazione non può ignorare. Se le figure retoriche hanno un alto valore performativo oggi lo si nota soprattutto grazie alla difficile situazione epidemiologica in cui ci troviamo. Il dilagare del virus richiama a sua volta quell’immagine dell’infezione che abitualmente accostiamo al concetto di negatività, in ambiti differenti da quello sanitario; anche linguisticamente parlando, gli errori ed il male sono contagiosi – basti pensare alle idee dissidenti che divengono “virali” e vanno perciò combattute, o ai cattivi esempi di un singolo che si “trasmettono” con la gettata di un contagio. Se le parole sono importanti, utilizzare un certo tipo di linguaggio può avere conseguenze etiche di una certa rilevanza.
Con il dilagare del Covid-19, abbiamo assistito sempre più frequentemente a paragoni da parte di leader politici o media che cercano di esprimere la gravità del virus utilizzando la metafora della guerra. Tramite l’immagine dello scontro viene così restituito un qualche nemico contro cui combattere, come se si volesse tracciare una linea netta di posizione tra noi ed il morbo. La rievocazione – chiaramente idealizzata – del conflitto richiama all’eroismo i popoli, suscitando sentimenti che connettono ciascuno al destino della storia nazionale e ci fanno sentire partecipi di una battaglia collettiva. Tuttavia, in questo caso non c’è nessuna guerra.
Non ci sono fronti, né tantomeno esiste un nemico esterno contro cui accanirsi; quella con cui stiamo facendo i conti è un’epidemia e di fronte al contagio non ci si può porre come se ci fosse una frontiera da difendere. Si tratta di sopravvivere, non di scontrarsi. Ci troviamo di fronte ad una catastrofe sanitaria di proporzioni mondiali, che viene tuttavia condensata nell’immagine di un qualche orizzonte nemico. L’utilizzo della figura retorica bellica porta piuttosto alla deresponsabilizzazione del soggetto, il quale, pur essendo in uno stato d’allerta, non sente di doversi impegnare in prima persona. Il virus è “cattivo”, ma diventa così un male che va combattuto in prima linea solo dai medici e dal personale sanitario, mentre noialtri ne attendiamo passivamente la sconfitta.
La paura rimane, ma è una paura che non ci richiama all’azione. Pensando di poterci distrarre, proviamo così ad ingannare il tempo mentre aspettiamo che passi il periodo di quarantena e ci irritiamo se ci viene negata l’attività fisica, lo svago di una corsetta al parco o il pranzo domenicale coi parenti. Tutte cose da poco, qualora non ci si renda conto che siamo noi i terminali del contagio e che la trasmissione è data da un insieme di relazioni che contribuiamo ad intrecciare. Senza contare che, ponendo la questione in termini di battaglia, si rischia di identificare il fantomatico nemico non nel morbo in sé, quanto piuttosto nei contagiati.
Non viene così sottolineato il bisogno di essere solidali con chi è stato “colpito”, ma piuttosto si carica il malato del senso di colpa di essere tale. Lo stigma sociale associato al Covid-19 porta ad assumere comportamenti discriminatori nei confronti di quelle persone che hanno un legame percepito con il virus (sono infette o hanno avuto contatti) ed un tale atteggiamento incrementa le difficoltà legate al controllo dell’epidemia anche sul piano sociale. Il rafforzamento di false associazioni tra epidemia e guerra, che si consolida con un cattivo uso del linguaggio, contribuisce quindi a disumanizzare coloro che sono colpiti dalla malattia, isolandoli. Non a caso, sul sito dell’OMS è presente un documento che invita all’uso di una terminologia più corretta e meno stigmatizzante, sottolineando il ruolo chiave delle espressioni negative nell’influenzare il modo in cui sono percepite e trattate le persone che si pensa possano essere colpite dal virus.
Le parole, come spesso non accade, andrebbero dunque soppesate. Siamo in uno stato di emergenza sanitaria, senza alcun dubbio, ma non siamo in guerra. Non ci sono nemici esterni ma neppure interni e le uniche armi che sono implicate sono quelle del buonsenso, oltre che della prevenzione. Bisognerebbe quindi cercare di prendere le distanze dalla metafora del conflitto-pandemia, provando invece a spiegare quest’ultima per quel che è, con meno artifici retorici ma maggiore chiarezza. In tempi di guerra per sopravvivere si è costretti ad uccidere e mostrare diffidenza l’un l’altro, mentre oggi il tempo in cui ci troviamo deve necessariamente essere quello della solidarietà. In guerra si entra per preservare il proprio stile di vita, ma oggi siamo davanti alla necessità di attuare un cambiamento sostanziale, mettendo globalmente in discussione la nostra scala dei valori. Assumendo quanto prima atteggiamenti che richiamino fiducia reciproca riusciremo forse ad esorcizzare la guerra, piuttosto che rievocarla.
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