Contadini siciliani al lavoro in un grande latifondo all’inizio del secolo scorso
3 minuti per la letturaAlla Camorra fa seguito Gomorra, alla Mafia, invece, consegue un ritorno: il latifondo.
Se in Campania, e nella sua grande distesa metropolitana, un codice di morte anarchico e ragazzino subentra a un sistema strutturalmente militare, in Sicilia – dove Cosa Nostra, dopo la stagione delle stragi, è stata sconfitta dallo Stato – la criminalità lascia la città per tornarsene in campagna per ingaggiare una guerra di altri tempi. Fosse pure per strappare sussidi e miserie.
A Roberto Saviano – nella stessa collana Mondadori, Strade Blu – si aggiunge dunque Massimo Giletti ma se Gomorra è una sorta di Sacro Graal per gli adolescenti delle sparatine di Napoli, Le Dannate, la storia delle sorelle Napoli che non si arrendono alla “mafia dei pascoli” a Mezzojuso, in provincia di Palermo, chiama il pubblico a parteggiare per delle vittime di reato e non certo a emulare i malacarne o i capintesta. Non è una differenza da poco ed è diventato un libro il grande romanzo popolare che Giletti, già attraverso Non è l’Arena su La7 ha costruito in punto di verità raccontando una Sicilia dove le terre sono abbandonate e l’unica attività è l’emigrazione. Tre donne, proprietarie di novanta ettari – senza marito, senza figli maschi e senza più un padre, il Re Leone di un destino patriarcale – si sono ritrovate sole.
Lasciate sole e isolate – inaudito in una realtà come quella dell’entroterra siciliano – alla mercé degli sconfinamenti, delle intimidazioni e di una sassaiola. Sole e abbandonate affinché – lasciando la propria terra a chi sconfina, a chi le intimidisce e a chi le lapida – la criminalità trovi agio di tornarsene in campagna e da lì, per istinto arcaico, ricominciare. Un grande romanzo popolare, impastato nella materia umana, troppo umana, di un destino remoto, dove la realtà prende il sopravvento sulla narrazione. Le tre sorelle, infatti – grazie a un articolo di Salvo Palazzolo che le racconta su Repubblica – trovano una telecamera, quella di Giletti, e un carabiniere cui affidare il proprio spavento e la volontà di dire no.
Il comandante della stazione dell’Arma è Pietro Saviano, un raffinato intellettuale, un uomo di tenace concetto per dirla con Leonardo Sciascia e sembra scavato sul calco, infatti, del Capitano Bellodi tanto in lui riluce il dovere. Giletti, lo conosciamo tutti, è la star dell’informazione televisiva che decide di allestire il set in quella meraviglia di borgo dove paziente attende San Nicola – il patrono – affinché misericordia si accordi a giustizia. E così, in paese, sembra ribadire la bandiera d’Albania sul balcone del municipio.
L’aquila schipetara è custode di un’identità antica e fiera: quella dei “greci”, da secoli uniti ai “latini”, saldati come lo sono, condividono lo stesso muro portante, le due distinte chiese, una delle quali – quella ortodossa – è un vero e proprio forziere di splendide icone. In campagna è sempre un’altra cosa, l’altrieri quando l’esito delle indagini è stato svelato in una diretta organizzata da la7, i fischi e le urla della gente, offesi dal clamore di una vicenda portata in piazza, sciolgono il ragionamento in un urlo sollecitato da Palazzolo, presente tra gli ospiti: non abbiamo paura degli uomini di Provenzano, dicono, giusto qui dove un “postino” del boss – ai tempi, neppure troppo lontani – si prendeva cura della sua latitanza. Guerre comunque di altri tempi i cui echi baluginano adesso negli stop tecnici della diretta nel frattempo che la Sicilia è scivolata in un baratro ancora più spaventoso a giudicare dalle rovine disseminate intorno ai buoni propositi.
Che ne sanno le mucche, le pecore e i tratturi del pascolo di tutto quel profondersi di fanfare della legalità quando a inizio di questa settimana dal tribunale arriva una sentenza dura – assai dura – per il presidente di Confindustria Sicilia, un tempo mito dell’antimafia, sostenuto dal meglio della società civile, dal Pd che lo stava facendo ministro con Matteo Renzi e perfino dal giornalismo più blasonato? Niente ne sanno neppure le sventurate capre ma la criminalità – e la storia delle dannate lo dimostra – mangia quel poco che avanza e si prende quel che resta: una casa per quanto può bastare e terra fin dove si riesce a guardare.
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