Giorgia Girometti
7 minuti per la letturaImmaginate di trovarvi nel deserto. Sudan orientale, Darfur. Tempeste di sabbia, dune, polvere, sole allo zenit, temperatura che sfiora i 45 gradi. Aggiungete qualche serpente e un certo numero di scorpioni. All’improvviso vi sale qualche linea di febbre, accompagnata sia pure in forma lieve da quei sintomi che ormai conosciamo bene. Senso di nausea, l’olfatto che se ne va, la respirazione che rallenta, diventa affannosa.
Per sapere se si tratta del malefico Covid bisognerebbe fare un tampone ed è quello che fa Giorgia Girometti, 34 anni appena compiuti, romana, unica italiana nel Sudan orientale nell’équipe di Medici senza frontiere. È alla sua quarta missione in altrettanti anni. Burundi, poi Congo e Repubblica Centrafricana, il lavoro sulle navi di ricerca e soccorso di Msf prima di tornare a Bruxelles e decidere che la sua vita è in Africa, perché «il lavoro è dove gli effetti si vedono subito, sul campo».
«Il tampone è stato spedito a Khartoum – inizia il suo racconto Giorgia – l’unica città dove ci sono i laboratori, distante 900 chilometri dal campo di Kairo dove ci troviamo noi. Prima di leggere “positiva” ho dovuto aspettare una settimana. Ero già in quarantena, 14 giorni più un’altra settimana per sapere se mi ero negativizzata. È la procedura».
Il Darfur è un’area geografica grande quasi quanto la Francia. La guerra civile è finita da diversi anni, non la violenza presente in alcune aree della regione. «Il mondo si illude che per debellare questo nemico che da più di un anno è entrato nei nostri organismi e nelle nostre vite, basti alzare le frontiere e vaccinare la popolazione. E nessuno vuole privarsi della sua dose balsamica di vaccino. Contro gli egoismi nazionali e regionali c’è solo il Covax (Covid-19 vaccine global access) che rimane però poco più di una dichiarazione di intenti. Le fiale inviate ai Paesi poveri sono poche, troppo poche, poco più di un gesto simbolico. A volte solo una variante di geopolitica, uno strumento di politica estera, la diplomazia dei vaccini. Msf, che quest’anno celebra il suo mezzo secolo di vita con varie iniziative, di recente ha lanciato un appello per chiedere anche in Italia di appoggiare la proposta di India e Sudafrica per la sospensione temporanea dei brevetti e altri di diritti di prorietà intellettuale su farmaci e facili utili a contrastare il Covid-19».
Quante sono le persone che in Africa possono permettersi il tampone?
«Prima di risponderle le chiedo però di fare una premessa. A Msf non non si fanno focus su di noi ma solo sui nostri pazienti. E io sono solo una delle tante e dei tanti contagiati».
In Sudan l’età media è di 20 anni, le speranze di vita tra 40 e 50 anni e questo influisce sulla pericolosità del virus. Forse anche per questo c’è ancora chi sostiene che in Africa il Covid non c’è.
«In Sudan come in altri Paesi la capacità di testing e molto limitata. Se non si fanno i test non lo sappiamo e non conosciamo l’ampiezza del fenomeno. Il Covid è più diffuso di quanto si pensi. La zona in cui stiamo portando avanti il progetto – medicina di base per la popolazione locale e i rifugiati – di cui io sono coordinatrice è molto isolata. La popolazione è mobile, sono rifugiati o nomadi, è difficilissimo avere una idea chiara. Le persone che noi possiamo intercettare sono i pazienti che vengono nel nostro ospedale da campo. Abbiamo allestito una zona dove isolare i casi sospetti. In questa zona non siamo noi che facciamo i test, ma il ministero della Salute, un’équipe che prende i pazienti e li trasferisce in un altro centro. Nel Darfur dell’Est, dove siamo noi, ci sono stati solo 40 casi dall’inizio della pandemia, pochi. In tutto il Paese, secondo i dati del ministero della Salute, sono circa 32mila casi e 2.194 decessi».
Voi fate molto per queste popolazioni. Cosa possiamo fare noi per voi?
«In Sudan Msf è presente dal 2003, in questo campo ci siamo dal 2017 per fornire cure di base. Abbiamo un reparto per le cure materno-infantili e un centro nutrizionale ma l’impegno più importante è per curare la malaria, ancora la causa principale di morte, soprattutto per i bambini sotto i 5 anni in questa regione durante le piogge. Viviamo in mezzo al deserto. Quando dico deserto dico 100 x 100, qualche cespuglio ma proprio a volerlo. Dal punto di vista geografico è quello che si dice un ambiente ostile. Il calcolo approssimativo dei nostri pazienti è di circa 100mila persone, tenendo presente però che si sta parlando solo della popolazione della zona e dei rifugiati. Noi diamo aiuto anche alle popolazioni autoctone e ai circa 30mila rifugiati provenienti dal Sud Sudan: offriamo cure a chi ne ha bisogno a prescindere dall’origine. C’è chi arriva anche da molto lontano, non ci sono altre strutture sanitarie nella zona. Vengono a piedi, vengono con gli asini, con i cammelli. Non solamente le popolazioni stabili dei villaggi, che coltivano la terra, ma anche i nomadi che allevano il bestiame e quando arrivano lo lasciano fuori dalla nostra struttura per poi tornare a riprenderselo. Il sabato è il giorno in cui abbiamo più lavoro. C’è il mercato, vengono da lontanissimo a dorso di asino dal giorno prima, fanno anche 30 o 40 km. Il nostro focus per gli adulti è la maternità. Arrivano donne che non hanno mai visto un medico in vita loro, non hanno mai avuto una supervisione prima della gravidanza. Noi insistiamo perché ritornino dopo un mese per vedere se la mamma e il bambino stanno bene e soprattutto per vaccinare i bambini contro il morbillo».
E loro vengono per vaccinarsi oppure anche lì ci sono i no vax?
«Sì, sì, cerchiamo di spiegare loro quanto sia importante una visita di follow-up dopo la nascita del bambino per fortuna molte di loro vengono».
Solo per il morbillo?
«Dipende dalla disponibilità dei vaccini, se possiamo facciamo anche la trivalente. Nei Paesi dove lavoriamo è difficile far arrivare e poi trasportare i farmaci. Non è facile approvvigionarsi, ci sono molti step da rispettare, più frontiere, più dogane. Con il Covid la situazione è peggiorata. E questo vale non solo per i farmaci, ma per tutto il materiale che ci serve. Il Covid ha ridotto i movimenti e aumentato i controlli. Ci sono meno voli tra Europa e Africa».
I farmaci chi li paga?
«Li paghiamo noi. Li conserviamo in grandi stock che poi distribuiamo secondo i bisogni. Tutti i nostri fondi vengono da donatori privati, gente normale che ogni mese dona qualcosa o anche con il 5 x mille. Ogni finanziamento è vincolato a un reale bisogno medico. Questo è un po’ il nostro tratto distintivo che ci rende indipendenti. C’è un’emergenza prendi e vai. Nel mondo prima del Covid la nostra capacità di muoverci e mettere in campo tutto ciò che è necessario era ovviamente molto superiore, eravamo in grado di intervenire anche nel giro di 72 ore. Ora se c’è un emergenza, un virus che si diffonde bisogna fare i conti con il Coronavirus: lo staff internazionale, per dirne una, deve fare la quarantena, i movimenti di farmaci e di altri beni sono molto più lenti. L’impatto del Covid, sotto questo aspetto, è stato durissimo».
Prima di arrivare in Sudan è obbligatoria la quarantena?
«Certo, e dopo la quarantena un test molecolare. Stessa procedura quando tornerò in Italia».
Com’è la vita nell’ospedale da campo?
«Abbiamo una clinica e un compound, latrine, bagni e acqua, tutto ciò che serve. Non è un albergo a 5 Stelle, inutile dirlo, ma va bene così. Se usciamo lo facciamo sempre almeno in due. Ma fuori non è che ci sia molto da vedere dato che è una zona molto isolata. Si esce solo per incontrare gruppi di rifugiati o per parlare con autorità locali o altre Ong che lavorano nella zona. Gli spostamenti sono più complicati, il centro abitato più vicino è a 40 km, tutto deserto, Ed Daein, capitale del Darfur orientale».
Questa vita per quanto tempo?
«Nel caso specifico questa missione durerà sei mesi, poi ce ne saranno altre. Molto dipende da dove si sta. In posti meno ostici, nelle capitali, ad esempio, ci sono più agi e si può restare anche più a lungo. Eppoi si riparte».
Cosa le manca di più?
«No no, ce la caviamo, riusciamo a trovare riso, carne, verdure, di tanto in tanto qualche melanzana e qualche pomodoro. E ci siamo costruiti un forno dove qualche volta facciamo la pizza. Buona la pizza…».
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