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Marine Le Pen

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Chi è il vincitore del dibattito televisivo di mercoledì sera in vista del ballottaggio per le presidenziali francesi? Marine Le Pen che non riesce a smettere di sorridere in faccia al presidente, con l’aria di chi vuole deriderlo? Oppure Emmanuel Macron, incapace di scrollarsi di dosso l’aria del professore che spiega la lezione a chi non ci capisce nulla? Difficile dirlo.

Entrambi gli sfidanti sul ring appaiono ansiosi di mostrare pathos per la vita quotidiana e le preoccupazioni dei loro connazionali su una serie di argomenti: gli effetti della guerra in Ucraina, l’assistenza sanitaria, le pensioni, il Covid, l’Europa, le tasse, l’immigrazione, l’ecologia, il costo della vita.

Il risultato finale è molto diverso rispetto al dibattito televisivo delle elezioni di cinque anni fa. Nel 2017, la performance della Le Pen fu disastrosa. Questa volta è molto più preparata, cerca di mantenere uno stile moderato e presidenziale, interpreta il ruolo di madre della nazione come gli spin le hanno suggerito (suggerimento che non aveva accettato nel 2017).

Cinque anni dopo la prima volta, il personaggio di Macron appare cristallizzato. Non è più la stella nascente, luminosa e improvvisa del 2017, ma porta il il peso dell’esperienza presidenziale, scatenando reazioni contrastanti che vanno dall’apprezzamento della serietà al fastidio per l’uomo di potere. Ma qual è il dato politico più eclatante della contesa?

Ancora una volta il populismo di Madame Le Pen. Più educato e garbato, certo, ma sempre uguale a se stesso. O, meglio, sempre più simile al modello ungherese di Viktor Orbán. Le Pen affronta la crisi del costo della vita, che secondo i sondaggi è la preoccupazione numero uno per gli elettori francesi. Ma lo fa proponendo di “restituire i soldi ai francesi”: una riduzione delle tasse permanente per dare alle famiglie francesi da 150 a 200 euro in più ogni mese per famiglia. E una promessa di riduzione dell’Iva su carburante ed energia.

Rispetto alle ricette demagogiche della concorrente, Macron ricorda l’adozione del congelamento dei prezzi durante la crisi del costo della vita come misura di emergenza. “Più efficiente di un calo dell’Iva. E tu hai votato contro”, attacca il presidente.

Un altro motivo di scontro sull’economia riguarda il lavoro. Ancora una volta Le Pen si lancia nella promessa facilona di aumentare gli stipendi del 10%. “Il presidente non decide gli stipendi, dipende dai datori di lavoro. Stai cercando di far credere alla gente che aumenterai gli stipendi del 10% e non è vero”, risponde Macron.

La cosa più inquietante è che dalla leader del Rassemblement National arriva un nutrito campionario di proposte che, se applicate, rappresenterebbero l’uscita di fatto della Francia dall’Europa: il divieto del velo islamico nei luoghi pubblici, un referendum per aggirare la costituzione per reprimere l’immigrazione e introdurre politiche nazionaliste francesi per il lavoro, i benefici e l’assistenza sanitaria, l’abbandono del mercato elettrico europeo, la creazione di un’alleanza di nazioni europee che renderebbe superflua la Commissione europea. Una serie di iniziative stigmatizzate da Macron come una Frexit fatta di nascosto.

Il presidente rinfaccia alla concorrente pure i legami con Vladimir Putin: il prestito ottenuto da una banca russa che la renderebbe dipendente dal tiranno di Mosca, l’opposizione all’interruzione delle forniture di gas e petrolio russo da parte dell’Europa e il fatto che il suo partito in parlamento ha votato contro gli aiuti finanziari e militari all’Ucraina. Insomma, la paura di Macron – meglio dire: di tutta l’Europa – è questa: l’uscita della Francia dall’Europa non sembra più il piatto forte del menu lepenista, ma l’insieme del suo programma politico non farebbe altro che svuotare la Francia ‘europea’ dall’interno. Con il risultato di declinare a Parigi il modello dell’ungherese Viktor Orbán: un governo formalmente democratico e integrato, ma libero di fregarsene delle norme europee e di coltivare le sue simpatie filorusse. Nella visione della Le Pen, l’Europa è piegata a vessillo delle identità nazionali contro il “globalismo” di Macron.

Da qui derivano due proposte radicali. Una, simbolica (e iconoclasta): togliere le bandiere dell’Unione dagli uffici pubblici. L’altra, concreta: ridurre il contributo netto della Francia al bilancio dell’Ue di circa 5 miliardi di euro per riutilizzarli a vantaggio di programmi di ispirazione sovranista. Certo, si tratta di esiti improbabili, visto peraltro che il budget 2021-2027 è già stato concordato.

Tuttavia, il fatto di scrivere queste proposte nel programma politico deve preoccupare, specie in un momento in cui l’Europa, con grande fatica, cerca finalmente di realizzare alcuni passi decisivi verso una maggiore integrazione: il Next Generation Eu, il pilastro fiscale, la difesa comune, l’indipendenza energetica.

La Francia, infatti, non è nuova a posizioni ambivalenti rispetto all’Unione europea. Fu, per esempio, la Francia a impedire l’approvazione della Ced, la comunità europea di difesa nel 1954, quando l’Assemblea Nazionale francese rigettò il trattato. Fu sempre la Francia a respingere, nel 2005, la ratifica della Costituzione europea redatta dalla Convenzione Europea nel 2003: i risultati del referendum francese videro la vittoria del fronte del No con il 55% dei votanti. Anche oggi la fotografia proporzionale del voto francese, ci avverte di un rischio incombente. Le formazioni populiste e antieuropeiste di destra e di sinistra – guidate dai candidati Jean-Luc Mélenchon, Éric Zemmour, Marine Le Pen – rappresentano almeno la metà dell’elettorato transalpino.

Se Macron dovesse farcela anche stavolta dovremmo ringraziare quel meraviglioso meccanismo del doppio turno francese che permette di isolare le ali estreme a vantaggio del candidato più sensato. Ma è presto per cantare vittoria.

Un eventuale successo della Le Pen, viceversa, con lo strisciante aggiramento delle norme europee del mercato unico e l’affermazione di politiche autarchiche e revansciste, proprio nel momento in cui la guerra devasta un paese europeo, non fa dormire sonni tranquilli alle cancellerie europee e alle istituzioni di Bruxelles.

L’unico a gongolare sarebbe Vladimir Putin. Il partito della Le Pen sta ancora oggi rimborsando un mutuo stipulato con una banca russa, vuole la sospensione dei parchi eolici (proprio quando bisognerebbe aumentare l’indipendenza dell’Europa dagli idrocarburi russi), si oppone a sanzioni più severe contro Mosca.

Inoltre, il sogno nascosto della Le Pen è da sempre quello di lasciare il comando integrato della Nato e di rinegoziare il rapporto con gli Stati Uniti, con l’obiettivo di indebolire il legame transatlantico e di indirizzare la Francia (membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu e unica potenza nucleare dell’Ue) verso un partenariato con la Russia.

Di questi tempi, una prospettiva abbastanza raccapricciante. Meglio andare a dormire dopo aver letto l’ultimo sondaggio di Ipsos che assegna a Macron 12 punti di vantaggio su Le Pen al secondo turno (56% contro 44%). Sperando di non risvegliarsi come la mattina della Brexit o della vittoria di Donald Trump.


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