Osama bin Laden
7 minuti per la letturaVent’anni dopo sembra che la storia abbia fatto marcia indietro. L’11 settembre 2001 non ebbi il tempo neppure per respirare: scrissi il pezzo su Bin Laden e il giorno dopo afferrai l’unico volo disponibile, un Parigi-Islamabad, il 13 ero già sul Khyber Pass al confine con l’Afghanistan: fui il primo ad arrivarci soltanto perché c’ero stato qualche mese prima e sapevo dove prendere il permesso per entrare nell’area tribale dei pashtun.
In giugno avevo fatto un giro di qualche settimana tra Pakistan e Afghanistan, allora sotto l’Emirato del Mullah Omar. Ero partito accompagnato da un commento salace di un collega: «Che vai a fare da quelle parti? Tanto non c’è mai nulla che ci possa interessare». Mentre a settembre salivo al Khyber Pass pensavo che avevo speso metà della la mia vita da inviato di guerra per convincere direttori e capiredattori che nessun luogo è lontano. Oggi vedo giovani e meno giovani freelance partire per Kabul a proprie spese: hanno la mia ammirazione.
Erano tutti sorpresi dall’attacco a New York e al Pentagono. Era sorprendente la modalità ma chi seguiva queste vicende da decenni non era poi così stupito. Un attacco alle Torri Gemelle da parte di jihadisti c’era già stato nel febbraio del ’93, quando un furgone carico di esplosivo era deflagrato nei sotterranei del World Trade Center facendo sei vittime e mille feriti: ma le strutture della Torri Gemelle avevano resistito e si era evitata una strage. Anche l’uomo dietro l’attentato del 2001, Osama Bin Laden, era ben conosciuto, da molti anni.
È sempre un po’ antipatico autocitarsi ma in un articolo apparso su Limes nel marzo 1994 scrivevo di Osama Bin Laden, del ruolo della Cia e dei collegamenti con i gruppi jihadisti in Medio Oriente e in Bosnia. E del primo attentato alle Torri Gemelle del ’93: era l’11 settembre prima dell’11 settembre. Oggi si cercano di vendere come novità cose di cui si scriveva 30 anni fa. Ecco perché vent’anni dopo l’11 settembre 2001 gli americani hanno riconsegnato l’Afghanistan ai talebani: era un copione in parte già scritto perché sono decenni che gli americani, con alterne fortune, “giocano” con integralisti e terroristi.
11 SETTEMBRE 2001
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Agli inizi del ’94 non era passato molto tempo da quando democratici e repubblicani erano uniti sui banchi del Congresso americano in un coro appassionato per appoggiare la “giusta guerra” dei mujaheddin afghani contro il regime di Najibullah e i suoi alleati sovietici. Soltanto due anni, poi, erano trascorsi dalla caduta di Kabul, nell’aprile ‘92, e dalla vittoria contro i comunisti. Un’altra guerra in quel momento insanguinava l’Afghanistan: il primo ministro fondamentalista Gulbuddin Hekmatyar, in un’alleanza di convenienza con un ex comunista, il generale uzbeko Dostum, stava mettendo alle corde il presidente Rabbani mentre le ambasciate a Kabul erano state chiuse, le organizzazioni umanitarie avevano sbarrato le loro sedi nella capitale e una nuova ondata di profughi si rovesciava in Pakistan. Era il ‘93-94 ma somigliava un po’ al 2021.
L’Afghanistan era dilaniato da feroci divisioni etniche e tribali ma a Washington l’”operazione Kabul” contro l’Urss veniva comunque classificata come uno dei più clamorosi successi degli Stati Uniti. L’America, in stretta partnership con il Pakistan e gli arabi del Golfo, aveva riversato la maggior parte dei suoi aiuti all’integralista Hekmatyar, alleato dei leader musulmani più radicali, che aiutarono il terrorismo islamico in Asia e in Medio Oriente.
Hekmatyar e gli altri capi radicali afghani continuavano a ricevere sostanziosi aiuti dall’Arabia Saudita, paese che, in feroce concorrenza con l’Iran degli ayatollah, tentava di mettere il proprio “sigillo” finanziario e ideologico su un buon numero di movimenti integralisti in Medio Oriente e Nordafrica. Con risultati discutibili, considerando che la “pista afghana” era citata con frequenza dalla stampa tra le matrici del terrorismo e della guerriglia islamica diffusi dall’Alto Nilo fino alle montagne dell’Atlante.
Nel bilancio ‘93 la Cia fu costretta a stanziare 65 milioni di dollari per coprire gli acquisti sul mercato nero di centinaia di missili Stinger americani non utilizzati dai mujaheddin durante la guerra contro il regime di Kabul. «Ma forse gli americani – mi disse allora lo specialista del Medio Oriente Olivier Roy, consigliere di Parigi ai tempi del conflitto afghano – stanno girando il mondo con valigie gonfie di dollari per comprare il silenzio dei loro ex alleati: perché gli Stati Uniti hanno molte cose da nascondere e gli islamici hanno dei dossier su di loro».
Youssef Brodanski, direttore del Centro di ricerche del Congresso Usa sul terrorismo, sosteneva che agli inizi degli anni Ottanta combattevano in Afghanistan tra i 3 mila e i 3.500 arabi: alla fine del decennio soltanto tra i battaglioni di Hekmatyar ne erano stati arruolati 16 mila. Gli Stati Uniti credevano allora di manipolare gli islamici come uno strumento efficace per mettere alle corde Mosca.
L’amministrazione americana inoltre aveva delineato un altro obiettivo di questo “grand jeu” che opponeva Est e Ovest in un’area che era già stata teatro delle manovre delle potenze inglese e russa alla fine del secolo precedente. Washington infatti si proponeva di incoraggiare un fondamentalismo sunnita di stampo conservatore, alleato dell’Occidente, da opporre all’integralismo sciita degli ayatollah iraniani. Questa visione “strategica” era condivisa dai sauditi che per anni avevano foraggiato tutti i movimenti integralisti.
Gli americani durante gli anni Ottanta si servirono di una serie di “stelle” di prima grandezza della galassia integralista, tra questi lo sceicco egiziano Omar Abdul Rahman. I rapporti tra gli Usa e lo sceicco cieco presentavano molti lati oscuri. Il 26 febbraio 1993 un furgone-bomba esplose nel parcheggio sotterraneo del World Trade Center a Manhattan con l’intenzione di causare l’implosione delle Torri Gemelle e la morte di migliaia di persone. Secondo una versione della storia, Rahman – arrestato come ispiratore dell’attentato alle torri del World Trade Center – sarebbe stato presentato ad agenti americani della Cia da Hekmatyar in Pakistan nell’88. Questo dava credito alla tesi secondo cui era stato un agente della Cia all’ambasciata Usa di Khartoum a rilasciare il visto allo sceicco per entrare negli Usa.
L’attentato alle Torri Gemelle di New York del ‘93 dimostrava già allora quanto fosse pesante per gli Usa l’eredità della strategia americana Afghanistan. Gran parte dei protagonisti dell’affaire erano infatti ex combattenti della guerra santa contro Mosca. Tariq el-Hassan, un sudanese, arrestato nel 93, che progettava di far saltare il tunnel delle Nazioni Unite e quello della sede newyorkese dell’Fbi, per diversi anni aveva gestito in Usa un centro di transito dei volontari per l’Afghanistan. Tutto con il consenso della Cia.
Dalle file dei combattenti dello sceicco Omar Abdul Rahman, accompagnato dal suo luogotenente palestinese Abdullah Azam, mentore di Osama Bin Laden, uscivano i guerriglieri che si infiltrarono poi a migliaia in Algeria, nella valle dell’Alto Nilo, in Egitto, Yemen, Sudan, e i nuclei dei terroristi islamici. «Quando sarà riscritta la storia della resistenza afghana – affermava sull’Independent del 6 dicembre ‘93 Robert Fisk introducendo un’intervista a Bin Laden, fondatore di Al Qaeda – bisognerà assegnare un ruolo di primo piano a questo uomo d’affari, sia per il suo contributo alla guerriglia che per la parte avuta nelle recenti vicende del fondamentalismo islamico».
Robert, come spesso accadeva, ci aveva visto lungo. L’attacco alla Torri Gemelle cambiò il mondo, si disse allora. Fu così: guerre infinite, morti a centinaia di migliaia, nuove alleanze e nuove armi, sorveglianza di massa, torture. Quello che non riuscivo a immaginare è che sulla strada di Jalalabad del novembre 2001, con i talebani in fuga, potessero uccidere Maria Grazia e Julio. Da quelle parti la vita è sempre appesa a un filo e a un destino a volte terribile.
Vent’anni dopo la vittoria talebana in Afghanistan riporta all’essenza della “guerra al terrore”: inutile, dannosa, perdente. E oggi, proprio l’11 settembre i terroristi nella lista nera dell’Onu e degli americani presentano il loro governo a Kabul, in un Afghanistan riconsegnato ai talebani dagli Stati Uniti così come lo avevano conquistato, senza lasciare traccia. Restano solo i ricordi.
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