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Ursula von der Layen

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Un ponte aereo come quello che porta via i disperati afghani da Kabul non si era mai visto prima nella storia. Dobbiamo esserne orgogliosi e grati ai nostri soldati che seguitano a comportarsi non come dei Rambo ma come fratelli, amici, infermieri, insieme ai nostri diplomatici che strappano finché possono vite alla umiliazione e alla morte.

Sì, è vero, c’era stato il ponte aereo di Berlino nel 1948, celebratissimo anche con monumenti alla memoria, quando gli americani reagirono all’assedio e al blocco della ex capitale del Reich settore occidentale ordinato da Stalin, e quel ponte servi a portare ogni giorno a tutti i berlinesi assediati latte, pane, vestiti del carburante, medicina, medici, personale di sicurezza e strutture ospedaliere.

Quel ponte aereo terminò con una vittoria perché i sovietici dovettero prendere atto che Berlino Ovest non sarebbe mai caduta e avrebbe seguitato a galleggiare come una piccola isola lucente nella spenta e depressa campagna della Repubblica Democratica Tedesca. Fu un successo americano, ma quello che sta accadendo in queste ore a Kabul è infinitamente più eroico, toccante e disperato perché si tratta di un ponte aereo che non finirà con un successo ma che suggellerà la sconfitta totale di un’operazione iniziata dagli Stati Uniti, ma cui tutti abbiamo partecipato illudendo un popolo magnifico di avere conquistato, se non una perfetta democrazia, almeno i principi fondamentali dei diritti dell’uomo e della donna scritti nelle carte delle Nazioni unite.

Ora li attende la barbarie da cui erano stati salvati: le mutilazioni, i figli strappati ai genitori, le bambine umiliate e uccise, magistrati donne inseguite dai talebani nella notte, senza più diritto di ascoltare musica perché da ieri è stata proibita per sempre. E dunque siamo testimoni e attori di una disfatta senza precedenti, perché dopo aver illuso milioni di persone di avere gli stessi nostri diritti, primo tra i quali quello del rispetto, siamo costretti ad abbandonarli al loro destino, salvo i pochi che siamo già riusciti mettere in salvo (e si tratta già di settantacinquemila persone,) e gli ultimi che in modo fortunoso riusciranno a salire sugli ultimi aerei già semivuoti perché i talebani hanno chiuso gli accessi all’aeroporto a chiunque non abbia un passaporto straniero.

A questo punto sarebbe lecito fare un sogno: sognare che l’Europa avesse una volontà politica e una forza armata sufficiente a far valere i propri principi anche con la forza. Gli americani se ne vanno perché si stanno preparando da tempo alla prossima guerra in cui non c’è posto per l’antico scontro di civiltà scatenato dagli attentati dell’undici settembre nel 2001 ed è la possibile, ma forse già probabile, guerra con la Cina.

Il vero teatro del conflitto già è e sempre più sarà, nel Mare del Sud della Cina che, a dispetto del nome, non appartiene affatto alla Cina che però se ne è impossessata violando una sentenza del tribunale dell’Aja. In quel mare si sono concentrate le flotte di tutto il mondo comprese navi da guerra francesi, inglesi e persino tedesche. Noi italiani per ora da quel teatro siamo assenti e non abbiamo idea se davvero il mondo potrà bruciare sulle acque incendiate che bagnano Taiwan, l’Indonesia, il Giappone, Borneo e Vietnam fino all’ Australia.

Ma gli americani sono gente pratica e hanno concluso che perdere altri soldi, altro tempo e altri uomini in una logorante guerriglia di occupazione del posto più sperduto del mondo qual è l’Afghanistan, non ha più alcun senso. E che, quanto agli esseri umani illusi e poi sacrificati, si limitano a rivendicare il gran numero di persone già trasferite già negli Stati Uniti.

In fondo è logico e dunque normale che sia così: come diceva Donald Trump, l’America non è la baby-sitter del mondo: è la più grande potenza totalmente autosufficiente e se gli europei vogliono una politica estera, si decidano a spendere quel che finora hanno risparmiato grazie all’America, per disporre di uno strumento militare all’altezza delle loro ambizioni. Ma “the States” vogliono soltanto commerciare i loro prodotti e vogliono la garanzia di una totale libertà di navigazione specialmente nel braccio di mare su cui passa la quasi totalità del traffico mondiale dei beni prodotti e venduti.

Questo, intendeva Donald Trump quando parlava di America first: gli interessi americani vengono per primi per gli americani che non sono obbligati a sottometterli ad alleati pigri ed esigenti come la Germania. Per questo Trump aveva disposto una grande strategia del ritiro delle truppe americane da tutto il mondo e avviato le trattative di Doha con i talebani per arrivare ad un compromesso accettabile per tutti senza inutili spargimenti di sangue ma a testa alta e con la garanzia di poter proteggere coloro che hanno lavorato per l’occidente.

Biden con la sua furia di accontentare i capibastone della sinistra del suo partito che gli hanno imposto la data ultimativa del 31 agosto per uscire dall’Afghanistan, non ha avuto il fegato di imporre le regole dell’uscita e le salvaguardie per le vittime ma ha mandato il capo della Cia a Kabul per trattare con i talebani una comune politica contro i temuti attentati dell’Isis che per ora esistono soltanto nelle carte dell’intelligence.

Boris Johnson ci ha provato, Angela Merkel anche, Mario Draghi ha fatto il possibile assumendo ancora una volta un ruolo preminente se non presidente dell’unione europea, ma non c’è stato nulla da fare. L’Europa non ha uno strumento militare. Il Regno Unito ha il proprio, di una qualità e quantità più che decente, ma si tratta comunque di uno strumento militare di una media potenza che non ha più nulla a che fare con quella del grande impero britannico che fino al 1945 poteva contare su mezza America, mezza Africa, e mezza Asia oltre l’Australia e la Nuova Zelanda.

La Francia è bene armata e mantiene attive le sue truppe nel nord ovest dell’Africa francofona e la Germania rilutta a mettere in campo i suoi militari perché la politica della Germania unificata, diversamente da quella della Repubblica Federale Tedesca, non tollera il ripristino di una potenza militare tedesca a causa degli orrori della Seconda guerra mondiale. L’Italia è una piccola potenza regionale con uomini e materiale militare di primissima qualità ma che possono soltanto funzionare come accessori di un meccanismo che non esiste.

Il sogno, dunque, era questo: immaginare di rispondere agli americani: ve ne volete andare, abbandonando un popolo con cui abbiamo stretto delle relazioni strettissime che abbiamo difeso per difendere anche voi americani il segno di solidarietà con le stragi che avete subito? Bene, andatevene pure, ma noi restiamo. È un sogno, ma Boris Johnson ci ha provato senza trovare risposte attendibili.

L’Europa è molto più popolosa degli Stati Uniti d’America e anche molto più ricca degli Stati Uniti d’America. Nessuna entità politica come l’ Unione europea e altrettanto grande, ricca ed economicamente potente come l’unione. Almeno se ci riferiamo all’area delle democrazie perché certo la Cina è certamente più potente dell’Europea visto che si prepara ad un confronto possibile con gli Stati Uniti di cui ha eguagliato la qualità e la quantità militare almeno nella Marina militare e nell’aviazione da combattimento.

La spesa che occorrerebbe per avere una forza armata attrezzata e all’altezza dei tempi è più o meno quella che si spende per la sanità pubblica. Le stesse cifre valgono anche per gli Stati Uniti: noi spendiamo percentualmente in sanità pubblica ciò che gli Stati Uniti spendono in aggiornamento di armamenti. Naturalmente se vuoi fare politica estera e vuoi schierare una flotta non puoi ottenere lo stesso risultato se schieri la sanità pubblica delle regioni italiane da cui partiti attingono sia in termini di denaro che di traffico d’influenze e voti.

Non che sia così dovunque. Ma questa volta, mentre guardiamo le toccanti fotografie dei nostri militari e diplomatici che salvano donne prendono bambini, caricano aerei come del resto fanno anche tutti gli altri militari della coalizione e per primi proprio gli americani che certo non si lasciano non sono secondi a nessuno anche in questa fase umanitaria. Con la differenza che loro se ne vanno per una scelta politica che risponda alle esigenze della loro élite dirigente, mentre noi abbiamo soltanto seguito le loro necessità pensando di trovarci tutti insieme a compiere una grande operazione non soltanto antiterroristica ma anche umanitaria perché siamo andati fondamentalmente in armi a difendere le donne, le studentesse, le bambine, le professioniste che lavorano, che insegnano, che dirigono la società civile afghana da quando l’occidente è entrato nel loro paese.

Li vediamo in televisione e parlano con una tale intelligenza e con tale toccante arco di sentimenti da farci capire che queste persone hanno avuto il tempo di amarci prima che noi le abbandonassimo. Dunque, almeno applaudiamo e rendiamoci conto del bene che sotto la bandiera italiana si sta facendo in Afghanistan caricando aerei, salvando donne e bambini, proteggendo le famiglie, schiudendo spazi di futuro per persone che credevano di averne che scoprono di esserne state escluse. Fra poche ore tutto sarà finito.

Quando l’ultimo soldato americano sarà partito, si chiuderà il sipario e dell’Afghanistan non parleremo praticamente più fino a quando una nuova fase storica forse si aprirà e questo potrebbe anche accadere presto ma non ne abbiamo la più pallida idea. Dunque, qui ad oggi, rendiamo non soltanto onore ma commuoviamoci pure senza ritegno di fronte alla bravura, allo spirito di fraternità e di protezione umana fatta di empatia, di amore, di sostegno, senza alcun uso della forza di regola se non quella che occorre per tirare su con le braccia un bambino e portarlo oltre il muro di cinta di un aeroporto.


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